Una vecchia battuta dice che la Norma non è un’opera normale. Il nome, abbastanza eufonico, lo troviamo già tale e quale nel dramma originale in francese di Alexandre Soumet Norma ou l’infanticide, da cui il librettista Felice Romani trasse un libero adattamento. Alcuni suppongono che sia derivato dal nome inglese Norman, che vuol dire „uomo del nord“ – con riferimento ai Normanni ed alla superba Normandia. E sarebbe davvero una contraddizione simil-adorniana, che questa „donna del nord“ abbia trovato il suo compositore geniale in un uomo del profondo sud, e la sua interprete più inarrivabile in una cantante pure lei del profondo sud. Si sa che il siculo Vincenzo Bellini è considerato il re della melodia cantabile, che gli affiora sulle labbra con tale spontaneità e semplice autorevolezza da costituire un fatto forse unico nella storia della musica. Il canto è per
Bellini la concretazione assoluta dell’anima. Come ha scritto il musicologo inglese David Kimbel, il canto è per lui non solo un mezzo drammatico, ma una forza magica. Magica e notturna è l’atmosfera della sua opera pù celebre, Norma con la sua aria centrale Casta Diva dal lirismo contemplativo con andamento quasi sonnambolico. Nelle sue lezioni di canto alla Juilliard School la Norma per eccellenza, ovvero Maria Callas, sottolineava trattarsi di una delle più difficili arie che esistano, non solo perché richiede un eccellente legato, ma anche perché si è molto esposte.
Cantarla è come sentirsi in una gabbia di vetro, ha detto un altro celebre soprano, perché fa trasparire ogni minima debolezza della tecnica vocale. Il classico schema della melodia prevede una semifrase di apertura (detta antecedente – es. La donna è mobile qual piuma al vento) di 4 battute, e una di chiusura (detta conseguente – es. Muta d’accento e di pensiero) di altre 4; con annessa ripresa. Questa potremmo definirla una melodia „di taglia M“. Senonché Bellini predilige spesso la taglia XXXL. Nelle sue melodie il conseguente, lungi dal costituire una ricaduta più o meno prevedibile sulla tonica, assume uno slancio proprio e si espande in stratosferiche figurazioni e semifrasi parallele fino ad un punto culminante, senza perdere neppure un quanto della sua tensione interna. Per fare un paragone con la meccanica, ci sono due modi per tendere una molla: comprimendola (in musica, stringendo il tempo) o espandendola (in musica, allargando il tempo).
Quest’ultimo sistema è molto più difficile da realizzare in musica, e qui a Bellini riescono veri miracoli. In questa maniera egli trascende le simmetrie e le regolarità come segni di riconoscimento sintattico cari al razionalismo settecentesco. Se le sue melodie perdono il carattere preciso e perentorio, quasi meccanico, di altri autori, se la mancanza d’una gerarchia decrescente fra l’attacco ed prosieguo della frase rendono questa meno memorizzabile ed un po‘ meno riconoscibile di primo acchito, la sua vita interna ne risulta alla fine ben più ricca e variegata. Basta che l’ascoltatore si lasci andare alla contemplazione acustica del bel canto. „Le lunghe, lunghe, lunghe melodie di
Bellini“, ha stigmatizzato Verdi, come se anche lui non fosse alieno dalle melodie di ampio respiro: basta pensare al famoso Va pensiero. Eppure, sembra incredibile che proprio il delicato e ipersensibile Bellini abbia composto l’inno di guerra più brutale e selvaggio che sia mai risuonato in un palcoscenico operistico. Se dunque il compositore catanese non sembra avere precedenti nè successori nel panorama dell’opera italiana, un successore di prima classe gli si può ascrivere in un panorama più ampio: nientemeno che Richard Wagner. Molti si meraviglieranno, avendo presenti le alluvioni orchestrali del tedesco contro la scarna strumentazione dell’italiano. Ma è una questione di vocalità. Bellini era l’unico compositore italiano che Wagner ammirasse senza riserve, ed il suo è stato un amore per la vita: all’età di 27 anni compose spontaneamente, senza incarico alcuno, un’aria per basso da inserire nella Norma. Ed in vecchiaia, nalla sua villa Wahnfried intratteneva gli ospiti suonando al piano le arie di Bellini e riconoscendo esplicitamente di aver derivato da lui il suo ideale di melodia infinita. Ma anche le situazioni drammatiche: pensiamo al finale del Crepuscolo degli déi , quando Brunilde ordina ai guerrieri germani di ergere il rogo in cui si immolerà insieme al suo amante-traditore Sigfrido, richiama immediatamente l’ordine di Norma ai guerrieri galli Ergete il rogo in cui brucerà lei stessa assieme all’infedele amante Pollione. Ma la più belliniana fra le opere wagneriane è forse il Tristano e Isotta, e non per puro caso il maestro di Bayreuth desiderava nel ruolo dei protagonisti due cantanti italiani. Che però non sono mai stati trovati. Neanche trovare i cantanti adatti per la Norma è mai stato facile; perfino alcune celebri dive come la Tebaldi non hanno osato mettercisi.
Perciò che la prima di Francoforte sia stata un successo è quasi un miracolo, dato che ci si è arrivati in maniera piuttosto problematica. All’origine c’era un contratto con il nuovo Teatro dell’Opera di Oslo, la cui Norma avrebbe dovuto essere importata para-para sulla riva del Meno. Senonché la messa in scena vikingheggiante (e anche un po‘ turandotteggiante) dei norvegesi pare che abbia urtato parecchio la direzione artistica tedesca, con conseguente rottura del contratto. A questo punto la Frankfurter Oper si è ritrovata con un buco nel cartellone da colmare entro soli quattro mesi. Meglio di così era difficile che le riuscisse. In quattro e quattr’otto è riuscita a raccogliere un cast rispettabile con a capo il soprano sudafricano Elza van den Heever particolarmente versata nei ruoli drammatici e appassionati come Donn’Anna, Elsa di Brabante, Elisabetta di Valois, Desdemona, Leonora (Verdi) e Leonore (Beethoven) in cui ha mietuto grandi successi internazionali. Il suo impegno nel ruolo di Norma è stato totale sia vocalmente che scenicamente, sintonizzando entrambi con straordinaria concentrazione: una grande attrice (nel senso letterale: „colei che agisce“ scenicamente) oltre che grande cantante dalla eccezionale tecnica vocale. Certo, fra le equazioni fondamentali scoperte nel secolo scorso, oltre a quella di Einstein, a quelle di Schrödinger e di Heisenberg, si annovera pure quella di Tullio Serafin che dice Norma = 1 x Callas. Nessuno è mai riuscito a confutarla empiricamente, per quanti esperimenti siano stati fatti finora. Ma non per questo si devono dimenticare altri esperimenti ben riusciti con la Sutherland, la Caballé, la Scotto, la Gruberova, la Bartoli.
Quello che contraddistingue la van den Heever è la gamma vastissima e l’espressività accentuata ma senza cadere mai nell’estremo o nel cattivo gusto. Indimenticabile il tono di mesta rassegnazione che ha dato all’attacco dello stupendo duetto finale Qual cor tradisti, pezzo già filosoficamente ammirato da Schopenhauer quale manifestazione della negazione della volontà di vivere. Accanto a lei ha brillato il mezzosoprano francese Gaëlle Arquez esperta nei grandi ruoli di Carmen, Mélisande, Serse, ecc. nella parte della novizia ingenua Adalgisa, rivale per suo malgrado della protagonista. Si aggiunge la bella voce stentorea del tenore siciliano Stefano La Colla (un Pollione in uniforme nera con gli stivaloni – Oh rimembranza!), dall’emissione però piuttosto ingombrante, che sembrava più calibrata per una scena all’aperto, come le Terme di Caracalla o Torre del Lago. Una vera scoperta è stato il direttore d’orchestra Antonino Fogliani, uomo del profondo sud pure lui, che ha saputo far vivere l’orchestra passo passo con i cantanti accentuandone la dinamica con molta elasticità e con cristallina chiarezza. Speriamo di riascoltarlo presto. Bisogna riconoscere a questo punto che il regista Christoph Loy è riuscito a compiere un lavoro da certosino nel breve tempo a disposizione, istruendo non solo i cantanti protagonisti e comprimari, ma perfino ogni singolo corista in un personaggio dal comportamento individuale. È certo molto più facile programmare il movimento del coro, secondo l’uso, come d’una scolaresca tutti-in-fila. Aboliti i camuffamenti gallici con gli elmetti bicornuti che fanno tanto Asterix e il falcetto d’oro, il suo concetto è semplice e generale: abbiamo a che fare con un gruppo di resistenza clandestina che si oppone ad una superpotenza che occupa la loro terra, potrebbero essere altrettanto bene i partigiani della Brigata Garibaldi, i separatisti baschi o i guerriglieri curdi. E le „aquile romane“ del libretto potrebbero intendersi altrettanto bene come aquile asburgiche, o zariste, o -perché no?- americane. La storia si ripete, ogni interpretazione è libera. Riguardo alla protagonista, il regista ha fatto la scelta radicale di toglierle tutte le insegne sacrali per esaltarne l’aspetto puramente umano. E questo calcolo ha funzionato benissimo nelle scene più intime dell’opera, in particolar modo nelle due scene con Adalgisa che sono risultate toccanti come non mai. Anche i due bambini illegittimi di Norma ricevono da Loy una evidenza scenica che va molto più in là di quanto richiesto esplicitamente dal libretto.
Purtroppo però, seguendo coerentemente nel suo intento di umanizzare i personaggi, il regista ha finito con lo svuotare di contenuto proprio la scena-madre dell’opera, quella mistica invocazione alla dea Luna che sembrava appicicata sopra la regia come un ramo di vischio messo per convenzione in una cena natalizia. Per coerenza con il suo concetto Loy avrebbe fatto meglio a sopprimere Casta Diva. E poi, svuotata Norma del suo ruolo sacrale, come si spiega il grande rispetto che i feroci guerriglieri portano nei suoi confronti? Perché mai dovrebbero ubbidire ad una semplice donna come tante altre, fino al punto di agire contro le proprie convinzioni? Quindi, da un lato la regia è ammirevole per la sua precisa ed intensa elaborazione, dall’altro pecca di unilateralità fino al punto di distorcere un aspetto importante dell’opera. Il suo successo non è stato incontrastato. Ora, girando per Francoforte si sente parlare italiano dietro ogni angolo: si tratta di nuovi e vecchi emigranti alcuni dei quali finiscono a fare lavori umili, altri invece godono di una posizione sicura.
Dovrebbero sentirsi orgogliosi che un loro connazionale abbia un successo tanto rappresentativo quaggiù. Purtroppo nel teatro dell’opera -a parte i cantanti- non si sentiva nessuno esprimersi in italiano.