Con un’ambigua e arrogante strategia mediatica il grande gruppo automobilistico tedesco cerca di contenere gli effetti della crisi provocata dalla decisione di fare della Volkswagen, costi quello che costi in termini ambientali, il numero uno mondiale dei produttori di auto. Respinto dal Tribunale Costituzionale Federale di Karlsruhe il tentativo della direzione Volkswagen di bloccare una superinchiesta sui manager di Wolfsburg responsabili del dieselgate
Assistiamo nei primi giorni del nuovo anno a una serie d’iniziative del vertice di Wolfsburg con le quali la Volkswagen sta cercando di bloccare con tutti i possibili stratagemmi le indagini della magistratura tedesca sul dieselgate, la frode sulle pericolose emissioni dei gas di scarico del motore ad autoaccensione, a lungo ritenuto l’invincibile cavallo di battaglia dell’auto “made in Germany”. Sono passati ormai due anni e mezzo da quando, messa con le spalle al muro dall’amministrazione americana, la Volkswagen si era vista costretta ad ammettere di aver truffato le autorità ambientali dei Paesi industriali di mezzo mondo. Molte cose sono radicalmente cambiate negli Usa, poche in Europa, invece, dove ultimamente è echeggiato di proposito un nome. Quello del manager Oliver Schmidt, vent’anni alle dipendenze della Volkswagen e come responsabile del settore ambientale Vw negli Stati Uniti sempre al corrente delle dannose emissioni di NOx (ossido di azoto) dei motori diesel, un aspetto che egli si era ben guardato da portare a conoscenza delle autorità ambientali americane. Scoperto con le mani nel sacco, come si dice in questi casi, in seguito a una perquisizione nel suo ufficio, Oliver Schmidt dopo il suo arresto aveva finito per dichiararsi colpevole, precisando però di aver sempre agito in conformità a precisi “ordini superiori” della centrale tedesca di Wolfsburg. Da un lato, l’ammissione gli ha assicurato una riduzione della condanna, rimasta in ogni modo sempre piuttosto pesante: sette anni di carcere e una multa di 400mila dollari.
Chi confessa è perduto
Sennonché dall’altro lato la confessione del suo coinvolgimento nelle vicende del dieselgate davanti a un tribunale americano ha alienato al manager Schmidt ogni simpatia e sostegno da parte della Volkswagen, che a questo punto ha deciso a fare del manager Schmidt il capro espiatorio della vicenda dieselgate sull’importante mercato americano. Qualche giorno prima di Natale Oliver Schmidt – a conoscenza della truffa delle emissioni dei gas di scarico diesel ma evidentemente nello stesso tempo anche complice – si è visto recapitare nel carcere, dove sta scontando la sua lunga condanna, una lettera da Wolfsburg in cui la Volkswagen lo informa di aver deciso di licenziarlo in tronco e di aver cancellato nello stesso tempo ogni suo diritto di pensione. È una decisione che va interpretata come un inequivocabile avvertimento all’indirizzo di tutti quelli che prossimamente saranno chiamati a deporre davanti al tribunale tedesco di Braunschweig che svolge le indagini sul caso dieselgate. Si è così arrivati all’assurdo di una situazione nella quale l’ex amministratore delegato VW, Martin Winterkorn, che molti ritengono come il principale responsabile del dieselgate, incassa giornalmente una pensione di 3100 euro (pari a circa 100.000 euro mensili). Sull’altro versante, invece, c’è il suo ex-dipendente Schmidt, che è costretto a pagare – oltre a tutto il resto – anche 95 euro per ogni giorno in cui sarà “ospite” del carcere americano con la prospettiva di trovarsi sul lastrico quando tornerà in libertà.
Colossale complotto
Oliver Schmidt non può essere ovviamente l’unico manager Volkswagen coinvolto nella truffa del dieselgate grazie alla quale per circa una ventina d’anni il gruppo di Wolfsburg è riuscito a mantenere viva negli Usa e in Europa l’immagine di motori diesel assolutamente rispettosi dell’ambiente. Ci sono molti altri manager tedeschi del grande gruppo tedesco coinvolti nella vicenda i cui nomi sono ben noti alle autorità americane e che, però, sono al sicuro nel territorio di una Germania le cui autorità sono ben decise a opporsi a un’eventuale estradizione su richiesta di un giudice Usa. La vicenda del dieselgate in America ha riguardato poco più di mezzo milione di auto diesel ma in Germania e nei restanti Paesi europei si contano a milioni gli esemplari delle auto truccate, sulle quali pende la minaccia di un possibile divieto di circolazione in alcune grandi città, come Berlino Monaco e Stoccarda. Oltretutto, la situazione è aggravata dall’attuale assenza di un vero esecutivo a Berlino, dove un accordo di governo potrebbe dilungarsi anche fino a Pasqua. Anche la visibile perdita di prestigio e di autorità di Angela Merkel viene a complicare la situazione. Negli ultimi dieci anni l’opinione pubblica internazionale si era abituata a una cancelliera Merkel con ben in pugno le redini della situazione sociale e politica del Paese più importante dell’Europa. Non è più così e per quanto riguarda in particolare il dieselgate la Merkel aveva esercitato sinora un ruolo non secondario nel contenere le reazioni di Bruxelles all’indifferenza ambientalistica del gruppo automobilistico di Wolfsburg.
Supercontrollori bloccati
Da più di due anni ormai l’opinione pubblica internazionale va chiedendosi chi mai abbia deciso la truffa del dieselgate e chi, e fino a quale livello gerarchico all’interno del gruppo di Wolfsburg, ne fosse informato. Dall’ex-ad Martin Winterkorn lungo tutta l’intera scala gerarchica tutti i più importanti manager del gruppo sono letteralmente caduti dalle nuvole alla notizia del dieselgate e anche dai livelli inferiori nessuno sinora ha alzato la mano dicendo “io sapevo”. Dalle nuvole, tra gli altri, sono caduti a quanto pare anche i manager della BASF, che aveva escogitato il software che aveva la particolarità di non segnalava il mancato rispetto delle norme ambientali dei motori diesel. Un meccanismo della cui esistenza incredibilmente nessuno all’interno del gruppo non avrebbe mai saputo nulla. Si arriva così, dopo due infruttuosi anni d’indagine, al novembre del 2017 quando il tribunale superiore di un Land tedesco (l’OLG di Celle) decide di nominare un controllore straordinario con l’incarico di far luce sulle vicende interne del dieselgate Volkswagen. Una richiesta in questo senso era stata presentata in precedenza dall’associazione DSW che in Germania difende gli interessi dei possessori di titoli azionari, i quali nel caso della Volkswagen intendono chiarire chi all’interno della direzione e del consiglio di sorveglianza del gruppo di Wolfsburg fosse informato dell’esistenza del software manipolatore o quando in ogni modo ne fosse venuto al corrente. Alla nomina del supercontrollore si era immediatamente opposta la Volkswagen che si era rivolta al Tribunale Costituzionale Federale di Karlsruhe, obiettando che non esistevano i presupposti per un urgente intervento di un supercontrollore in attesa dei risultati della normale procedura giudiziaria in corso. Richiesta, comunque, subito respinta dal Tribunale Costituzionale di Karlsruhe che l’ha definita “assolutamente ingiustificata”. La posta in gioco per il gruppo di Wolfsburg al punto al quale sono giunte le cose è enorme. Perché nell’ipotesi che fosse dimostrato che direzione e consiglio di sorveglianza Volkswagen erano a conoscenza dell’esistenza e dell’impiego del raffinato software nei motori diesel del gruppo si avrebbe anche in Europa quella stessa situazione che negli Usa ha portato alla dura condanna della Volkswagen. Vale a dire che anche in Europa la Volkswagen sarebbe costretta a pagare pesanti penalità ambientali e a rimborsare agli automobilisti l’importo pagato per le auto diesel manipolate. In considerazione dell’enorme numero delle auto diesel del gruppo di Wolfsburg vendute in Germania e in Europa la gravità delle conseguenze per la Volkswagen non sfugge a nessuno: il giorno stesso in cui una simile situazione dovesse verificarsi il gruppo Volkswagen sarebbe costretto a chiedere immediatamente il fallimento.