Sotto il ponte della fiducia: il risorgimento infrastrutturale dell’Italia
Se ne parla da decenni, ma nonostante gli annunci, i rinvii e le continue e consolidate polemiche, il ponte sullo Stretto di Messina sembra ancora di là da venire, sommerso dai dubbi, dalle incertezze, dai “non ci riusciremo mai” e dai predicatori di cattive notizie.
La realtà è che il nostro paese sembra non credere più a nulla, soprattutto a sé stesso. Quando leggiamo le polemiche pro o contro Salvini e chi lo sostiene per quest’opera, pensiamo al 13 agosto 1898. Quel giorno a Iselle di Trasquera, un paesino sopra Domodossola, brillarono le prime mine per il traforo del Sempione. Era l’avvio a un progetto in cui non ci credeva quasi nessuno salvo chi aveva pensato, progettato, finanziato e voluto un’opera tanto colossale. Si chiamavano Alfred Brandt e Karl Brandau, gli ingegneri che dai due versanti avevano dato il via ai lavori per un progetto incredibile per quei tempi (come fu per la strada costruita da Napoleone cento anni prima): un tunnel ferroviario di quasi 20 chilometri capace di forare le Alpi con una galleria che fino ad allora non era mai stata neppure concepita e che rimase per 76 anni il record del mondo, superata negli anni ’80 da una galleria giapponese sottomarina. Furono impegnati sui versanti italiano e svizzero decine di migliaia di operai venuti da tutte le regioni italiane. Minatori sardi e toscani, contadini che non avevano mai tenuto un piccone in mano, disoccupati, analfabeti e tanti ragazzi. Solo nelle trincee del Carso ritroveremo fianco a fianco uomini così diversi, ma fusi per un progetto impensabile che sotto i loro occhi diventava realtà. “Rimarranno schiacciati dal peso di oltre 3.500 metri di roccia sovrastante, saranno strappati via dalle correnti calde del sottosuolo e comunque non si può lavorare a 55 gradi!” Rileggendo i giornali del tempo tutto sembrava impossibile ed invece, neppure sette anni dopo, tutto era compiuto. Alla fine, i calcoli manuali dello scavo (e non c’erano i GPS, computer e i satelliti di oggi!) risultarono perfetti: le due gallerie si ritrovarono esattamente a metà strada, dopo 10 chilometri di buio, con uno scartamento di soli sette centimetri e, su circa 15.000 operai impegnati nei lavori, ne morirono solo 42, un niente rispetto ai più di 200 del traforo del Gottardo di anni prima. Ci furono inondazioni, incendi, scoppi, epidemie, ma si corse sempre ai ripari, organizzando anche migliori condizioni di vita degli operai, che ogni giorno trovavano abiti puliti, toilette semoventi e aspiratori per ridurre la temperatura che superò anche i 56 gradi centigradi. Nacque anche un villaggio, Balmalonesca, per ospitare migliaia di operai e le loro famiglie, un paese “vero” con case, osterie, la scuola, una chiesa (anzi due, c’era anche quella evangelica) e perfino il parroco, Don Antonio Vandoni, che fu una delle 42 vittime finendo trascinato via dalle acque in piena del torrente Divedra.
Tutto ciò per sottolineare che, quando un’opera è davvero voluta, si riesce sempre a conquistarla e se per il Sempione furono allora la “piccola” Svizzera e la “povera” Italia fresca di unità (e al tempo non esistevano consorzi e fondi multinazionali, BCE, PNRR ed holding, ma solo fondi privati e buoni del tesoro) anche a Messina – volendolo – si arriverà alla fine. Il ponte sullo stretto non sarà solo un’opera storica ma, soprattutto, utile e necessaria se si vuole finalmente collegare la Sicilia all’Europa, se ci consideriamo una nazione davvero degna di stare nel G7. Per carità, sappiamo benissimo che la Salerno-Reggio Calabria più a nord è un colabrodo, che ci sono altri mille problemi logistici e tante strettoie, ma almeno risolviamo un problema (il principale) e forse sarà allora più facile risolvere gli altri. Fermarsi adesso sarebbe ridicolo, anche perché significherebbe ignorare cosa avviene nel mondo. A Dubai trent’anni fa c’era solo sabbia ed oggi il Burj Khalifa (hotel a 7 stelle) è il grattacielo più alto del mondo. Costruzione indigesta agli ecologisti ed opera faraonica ed inutile? Sta di fatto che l’anno scorso la città più visitata al mondo da turisti stranieri non è stata più Parigi ma proprio Dubai e – se qualche invidioso cugino d’oltralpe avanza dei dubbi – le tendenze di crescita sono chiare e Dubai lo sarà nettamente quest’anno. Allo stesso modo da Hong Kong non si va più a Macao con un aliscafo ma – volendo – con un ponte di oltre 50 chilometri. D’altronde chi andrebbe a raccontare agli abitanti di Copenaghen di chiudere il ponte con Malmoe, in Svezia, perché non serve, o a quelli di Istanbul che i Dardanelli si dovrebbero ancora attraversare in traghetto? Ormai Europa ed Asia sono connessi con più ponti sul Bosforo senza problemi, così come decine di isole nel mondo. Anche considerando solo i ponti a campata unica (a più campate il ponte più lungo è quello di 165 chilometri costruito per l’alta velocità Pechino-Shangai) costruire un ponte tra Calabria e Sicilia è nell’ordine delle cose e non dite che in Turchia, in Giappone o in Cina non ci siano tsunami e terremoti! Serve piuttosto coraggio, orgoglio, volontà: per una volta in Italia vogliamo crederci ed essere “avanti” o almeno un po’ meno di retroguardia, con magari anche un po’ di “spirito di patria”?