RUSSIA – Il regime di Putin, le sue guerre, la continuità post sovietica, la propaganda
In più di vent’anni di potere Putin non ha offerto un’ideologia unitaria. Il comunismo appartiene al passato. L’universalismo dei diritti umani e altri valori liberali sono rimasti un’utopia in Russia. Per tutti questi anni il sistema si è basato su una sorta di contratto sociale tra dominante e dominati, secondo il cinico principio: “lo Stato ci lascia stare e noi non interferiamo nella politica”.
Tuttavia, nella visione del mondo di Putin si può scorgere una cruda scuola di pensiero neo imperialista: egli sogna di ripristinare la grandezza della Russia tra Europa e Asia. Già nel 2005 aveva descritto la disintegrazione dell’Unione Sovietica come la “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. Ancora prima, nel 2000, Putin aveva riportato in auge l’inno nazionale sovietico, anche se con parole nuove ma con il vecchio significato semantico: la continuità verso la grandezza, la superiorità e la forza sono diventate l’imperativo della costruzione dello Stato.
Fin dall’inizio, la guerra e la violenza sono state uno strumento importante per la presa di potere da parte di Putin. Ha iniziato a stabilire la sua autocrazia nel 1999 con la seconda guerra cecena. Sono seguite la guerra in Georgia (2008), l’annessione della Crimea e l’istituzione delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk (2014), la Siria (2015) e, dal febbraio 2022, l’invasione russa dell’Ucraina. Queste guerre hanno permesso a Putin di inscenare una coesione sociale attorno al capo di Stato e di aumentare la fiducia nei suoi confronti come protettore, garante della stabilità e, paradossalmente, custode di un ordine mondiale di pace.
La dichiarazione di guerra del 24 febbraio 2022 contro l’Ucraina si alimenta della propaganda di “denazificazione” e di “smilitarizzazione” del vicino Stato. Alcuni dei propagandisti più zelanti si sono affrettati a parlare di deucrainizzazione per negare il diritto all’Ucraina di essere uno stato sovrano e per avviare lo sradicamento del popolo ucraino.
La propaganda drammatizza l’”operazione speciale” contro l’Ucraina e persino contro l’Occidente nella prospettiva di una sacra lotta del “bene” contro il “male”. Il 4 novembre 2022, giorno dell’Unità nazionale, l’ex presidente Dmitrij Medvedev ha descritto l’obiettivo della guerra come “fermare il sovrano supremo dell’inferno”. Il patriarca Kirill ha ripetutamente affermato che la Russia sta combattendo in Ucraina contro i “satanisti” e lo stesso “Anticristo”. Questi slogan propagandistici non potrebbero essere più assurdi, perché da secoli russi e ucraini sono legati non solo da una stretta storia di relazioni e interdipendenza, ma anche da una comune appartenenza confessionale.
Putin vorrebbe entrare nei libri di storia come “colui che unisce le terre russe”. La sua idea di “mondo russo” proclama apertamente l’unità di russi, bielorussi e ucraini e di conseguenza rivendica annessioni arbitrarie di territori. È un quadro ideologico eclettico con elementi di nazionalismo russo, di imperialismo sovietico e antioccidentalismo che trae ispirazione dalle idee contenute nelle opere filosofiche di Ivan Ilyin, Lev Gumilev e Alexander Dugin. Il fatto che siano in gioco Stati indipendenti e sovrani, quindi soggetti di diritto internazionale, non ha alcune rilevanza per il dittatore del Cremlino. Egli ha giustificato, nel suo intervento del 2021, la guerra d’invasione, che viola il diritto internazionale, con l’assurda tesi dell’unità dei popoli russo e ucraino.
Nel XXI secolo Putin sogna i vecchi tempi della Conferenza di Yalta delle grandi potenze del 1945: nel 2021 lanciò un ultimatum a Stati Uniti e Nato chiedendo di fermare l’espansione della Nato verso est, rivendicando nel contempo il ripristino dell’influenza sui territori dell’ex Patto di Varsavia.
Già nel discorso di Monaco di Baviera del 2007 Putin aveva accusato l’Occidente e gli Stati Uniti di tradimento, doppia morale e inganno. L’espansione della Nato verso est è al centro della “narrazione dell’umiliazione” in Russia. Questa narrazione alimenta il risentimento collettivo, impresso nella personalità di Putin. Ecco cosa successe: nel 1990, alla vigilia della riunificazione tedesca, il segretario di Stato americano James Baker garantì verbalmente al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che la Nato non si sarebbe spostata di “un solo centimetro” verso est. Ma in seguito sono arrivate diverse ondate di espansione della Nato ai confini della Russia (nel caso di Estonia, Lettonia e Lituania). Di conseguenza la Russia si sente umiliata e tradita dall’”Occidente collettivo”.
Più volte prima dell’invasione dell’Ucraina Putin si è lamentato del fatto che l’Occidente non avesse preso sul serio i suoi avvertimenti. La miscela di risentimento e revanscismo ha portato a un’inversione di percezione della realtà: Putin non si vede come aggressore ma come vittima, non come carnefice ma come sofferente. Insieme al collasso degli accordi di Minsk, l’espansione verso est della Nato viene strumentalizzata dalla propaganda russa per giustificare la guerra in Ucraina come una giusta guerra difensiva. L’élite del Cremlino sostiene di non condurre una guerra, ma di tentare di porvi fine.
Anche con i nemici e gli oppositori interni Putin agisce con la violenza. Sappiamo da numerose fonti che Putin non tollera il tradimento. Tutti ricordiamo, solo per fare qualche esempio, gli avvelenamenti ad alto impatto mediatico dell’ex agente del KGB Alexander Litvinenko nel 2006 e della famiglia Skripal nel 2018 nel Regno Unito, l’omicidio dell’ex combattente ceceno Khangoshvili a Berlino nel 2019. Putin non tollera nemmeno gli oppositori politici. Il 27 febbraio 2015, uno dei più importanti politici dell’opposizione, Boris Nemtsov, è stato ucciso a colpi di pistola fuori dalle mura del Cremlino. Le inchieste su diversi avvelenamenti di politici condotte da media indipendenti indicano il coinvolgimento dei servizi segreti russi nell’eliminazione dei nemici personali di Putin. Tra questi, ad esempio, Vladimir Kara-Murza e Alexei Navalny. Per non parlare del bavaglio alla stampa libera e all’uccisione della giornalista Anna Politkowskaja nel 2006.
Ciò che sappiamo con certezza è che i regimi autoritari stabiliscono sempre rigorosamente i limiti di ciò che può essere detto e li controllano con grande impiego di forze. Come ho ricordato sopra, i discorsi e i saggi di Putin sono pieni di narrazioni giustificative. Chi gli crede? Chi vuole credere a questi testi può lavarsi la “coscienza” e percepirsi dalla parte del liberatore e del protettore invece che dell’occupante e dell’aggressore. C’è poi un aspetto pratico: l’esercito è una soluzione alle difficoltà economiche di parte della popolazione. L’esercito offre un’importante, spesso quasi unica, opportunità di avanzamento sociale, soprattutto in regioni vaste ed economicamente deboli. Per la prima volta, lo Stato è disposto a pagare una somma davvero elevata per la partecipazione alla guerra o ad offrire pensioni di sostegno alle famiglie in caso di morte. Tali risarcimenti (ammesso che vengano pagati) ammontano a più 100.000 euro, accompagnati da numerosi privilegi. Si tenga conto che il salario medio in Russia è di circa 250 euro (equivalenti a 20.000 rubli) al mese.
Un’ultima considerazione: l’élite del Cremlino è maschile ed anziana. La sua età media è di 70 anni. Putin è entrato nel suo ottavo decennio di vita e sappiamo che l’aspettativa di vita media degli uomini in Russia è inferiore a 65 anni. Ciò significa che Putin stesso e i suoi più stretti confidenti sono cresciuti e si sono socializzati nell’Unione Sovietica. Infatti, circa il 60% dell’attuale leadership proviene dalla nomenklatura sovietica e spesso si tratta di ex funzionari della sicurezza, ex ufficiali del KGB. La continuità con l’era sovietica spiega in primo luogo la diffusa accettazione delle ambizioni imperiali della Russia in tutto lo spazio post-sovietico. In secondo luogo, ci fa comprendere il consenso intorno al “nuovo zar” alla guida di un sistema di potere autocratico. Infine, Putin non è un ideologo convincente, ma nonostante questo riesce a gestire il perverso equilibrio tra gruppi militari, politici ed economici.
L’autore Alexey Tikhomirov, è storico dell’Europa dell’Est presso l’Universität di Bielefeld.