Parla il celebre sociologo Domenico De Masi, autore del saggio “Smart working: La rivoluzione del lavoro intelligente” (2020, Marsilio Nodi)
Prof. De Masi, cos’è lo “smart working”?
In Italia abbiamo avuto soprattutto un modo per definire questo fenomeno: il telelavoro, un termine che deriva dai tempi quando ancora il telefono era legato ad un filo. C’era, a quell’epoca una scarsa flessibilità, perché il lavoratore comunque doveva restare attaccato al proprio telefono e alla sua scrivania di casa. La vera rivoluzione è arrivata con lo smartphone, questa meraviglia di macchina piccolissima, che include il telefono e tante altre funzioni. Da quel momento in poi è stato possibile lavorare da ovunque, cosa che oramai facciamo tutti i giorni e neanche ce ne accorgiamo, lavoriamo in smart working in continuazione, anche quando dal bar chiamiamo qualcuno per lavoro oppure in treno ci connettiamo con l’ufficio. Poi è arrivata la pandemia, e da circa mezzo milione di persone che lavoravano da casa, adesso sono diventate in pochissimo tempo circa 8 milioni. Il primo libro su questo argomento lo avevo curato nel 1993, però tutto questo ha avuto un andamento lentissimo: ogni anno il telelavoro aumentava di 20mila lavoratori l’anno. A causa di un evento terribile, appunto la pandemia in corso, questa rivoluzione ha subito una spinta enorme.
Lei ha sempre una carica ottimistica e dunque prevalgono, dal Suo punto di vista, i vantaggi dello smart working. Può dirci quali sono?
Il mondo in cui viviamo non è sicuramente il migliore possibile. Nonostante ciò è il migliore dei mondi esistito fino adesso. E questo, in un certo senso, ci obbliga ad essere ottimisti. Per quanto riguarda lo smart working, l’ottimismo deriva dal contributo enorme che ha avuto nel ridurre i danni della pandemia, proprio per quanto riguarda la salute, ma anche per l’ambiente. I vantaggi? Per un lavoratore diminuiscono i rischi di incidenti. La maggior parte degli incidenti stradali, circa il 60 per cento, avvengono durante il pendolarismo. Inoltre i dipendenti godono di una parziale liberazione dai controlli gerarchici. Non dimentichiamo poi il miglioramento delle condizioni di lavoro: e non pensiamo solo alla possibilità di utilizzo della propria cucina e del proprio bagno. Poi la doppia socializzazione: si conoscono meglio le persone che ci abitano attorno, anche nel quartiere, e, ovviamente, anche i colleghi di lavoro, che comunque continuiamo a frequentare, magari durante le conferenze. C’è anche un abbassamento della soglia d’ingresso nel mondo del lavoro; si pensi ai disabili, che hanno la possibilità di lavorare dalla propria abitazione. Anche per le aziende i vantaggi sono enormi: risparmiano i costi delle spese accessorie, riscaldamenti, aria condizionata, diminuisce l’assenteismo e il turn over dei dipendenti, aumenta la possibilità di integrare le donne e le persone disabili e svantaggiate, aumenta la flessibilità di svolgere conferenze e la possibilità di ottimizzare gli uffici creando posti di lavoro migliori. Inoltre vi è una riduzione delle “chiacchiere” di lavoro, un migliore clima aziendale, perché i dipendenti si sentono meno stressati, una maggiore spinta alla pianificazione e, un punto non da trascurare, una migliore immagine in termine di modernità e rispetto dell’ambiente. E, infine, ci sono tanti vantaggi per quanto riguarda la collettività: diminuisce il traffico di punta, si riducono gli incidenti stradali e anche i costi degli immobili, per non parlare dei costi di manutenzione delle strade; si tutela l’ambiente e poi si recuperano magari parti delle città abbandonate, riducendo allo stesso tempo la frequenza di aree sopraffollate. I vantaggi sono tantissimi, bisogna solo sorprendersi del fatto che questa rivoluzione non si è fatta prima.
Lei, stando ad alcune ricerche fatte, sostiene che lo smart working contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro, incidendo anche sull’economia. Potrebbe, dunque, magari essere questo per uscire dalla crisi?
Se paragoniamo proprio il nostro paese con la Germania, constatiamo che le nostre aziende hanno circa 20 per cento in meno di produttività rispetto a quelle tedesche. Un altro gap riguarda le ore di lavoro: i tedeschi lavorano circa 1400 ore all’anno, gli italiani 1800. Dunque, noi italiani, lavoriamo di più e produciamo di meno dei tedeschi, un gap enorme, circa del 40 per cento. Lo smart working potrebbe, dunque, aiutarci a ridurre queste differenze.
In Germania, negli ultimi anni, sono aumentati tantissimo i prezzi d’acquisto di immobili. Potrebbe lo smart working contribuire a stabilizzare i prezzi – ormai esagerati – degli immobili, visto che con le nuove tecnologie si può lavorare anche dalla periferia oppure addirittura in spiaggia?
Ma guardi che questo fenomeno già esiste, almeno in Italia. È un fenomeno che si chiama “south working”. Quando ci fu il primo provvedimento anti-Covid del governo italiano a marzo dell’anno scorso, tantissimi giovani si spostarono nel sud dell’Italia, da dove provengono, per continuare a lavorare tranquillamente dal mare, dalle case in campagna o dalle bellissime cittadine del meridione. Infatti la riduzione dei costi degli immobili, almeno in Italia, già è in corso. È una follia, ad esempio, che a Milano si continua ancora a costruire enormi palazzi per gli uffici.
In Germania ad esempio, a causa della pandemia la SAP permette ai propri dipendenti di lavorare da casa oppure in Inghilterra la British Airways ha annuciato di vendere gli uffici che si trovano nell’aeroporto di Londra. È questa, dunque, la tendenza?
Ma certo, le tecnologie ci sono e non sfruttarle è solo una resistenza assurda che costa alle aziende fino a 25 per cento di produttività. Tutte le ricerche confermano che i dipendenti, quando sono flessibili negli orari e nei luoghi di lavoro, lavorano meglio e in maniera più efficace.
E non vede il rischio di un isolamento se si lavora solo da casa?
Ma questa è una preoccupazione tipicamente italiana, direi che è un fenomeno che deriva dall’odio verso la famiglia: ci sono molti uomini che non vogliono tornare a casa ed essere coinvolti nei lavori domestici. Fanno lavoro straordinario non retribuito, cosa che non ha nulla a che fare con l’amore verso il lavoro. È una forma di patologia, hanno una visione del lavoro sbagliata. Anzi: lo smart working offre la possibilità di conoscere meglio chi abita attorno a noi, gli inquilini, le persone che frequentano il bar vicino e così via. L’isolamento, secondo me, si rischia invece proprio in ufficio, dove ognuno frequenta soltanto un piccolo team, anche nelle grandi aziende, per cui manca l’espressione comunicativa. Del resto smart working non vuol dire lavorare da casa tutto il tempo, ma magari tre giorni a settimana. Già questo migliora tanto la condizione di molti lavoratori.
E i sindacati non potrebbero soffrire il fatto che i dipendenti non sono più in ufficio, vale a dire, mancando la collettività, potrebbe il sindacato perdere la voce in capitolo di tutela del diritto dei lavoratori?
Innanzitutto lo smart working non è possibile implementarlo in tutti i settori. Ci sono lavori che non si possono telelavorare. Poi c’è da dire che lo smart working dev’essere facoltativo e non un obbligo. Del resto il sindacato si indebolisce se rimane sindacato e non si trasforma in tele-sindacato, sfruttando la possibilità di mobilizzare i lavoratori in maniera più efficace e veloce. Inoltre, in Italia, lo smart working va contrattato e, dunque, proprio nella contrattazione i sindacati possono riacquistare un po’ di potere, prendendo una boccata d’aria. Purtroppo i sindacati sono legati al mondo di lavoro tradizionale, cosa che rende ancor più difficile una nuova visione del modo di lavorare. Inoltre, anche i capi e i direttori delle aziende devono capire che la presenza del lavoratore in ufficio non vuol dire avere più potere. Questa visione del rapporto lavorativo va superata.
Dunque il governo dovrebbe favorire questa rivoluzione?
Non credo, sinceramente, che lo smart working, senza alcuni provvedimenti legislativi, avvenga da solo, quasi “naturalmente”. Purtroppo i capi faranno di tutto, dopo la pandemia, per far tornare i lavoratori in azienda. Dunque il governo dovrebbe fare una legge che dia ai dipendenti la possibilità di telelavorare laddove il lavoro è telelavorabile. Se ci fosse questa legge, molte cose cambierebbero. Non dobbiamo dimenticare che i capi, nonostante la pandemia, non sono cambiati: ho quasi tutti i giorni dei webinar con dei capi d’azienda. Alcuni pare che abbiano capito e stanno cambiando le cose, ma, appunto, non tutti. Poi c’è da dire che gli accordi sindacali che mi giungono in questo periodo e che prevedono il telelavoro non mi convincono, sono troppo cavillosi, pieni di regole che non rendono flessibile il lavoro, tentano soltanto di spostare il posto di lavoro dall’ufficio a casa, con una serie di norme molto rigide sull’orario di lavoro. Lo smart working dev’essere fatto bene.
Prof. De Masi: un’ultima considerazione sul mondo del lavoro…
Siamo in corso ad una mutazione: il lavoro sta diventando un fatto secondario. Nel 1901 circa 40 milioni di italiani hanno lavorato 70 miliardi di ore. Oggi, che siamo oltre 60 milioni, lavoriamo circa 40 miliardi di ore all’anno. I nostri antenati lavoravano circa per il 50 per cento del tempo durante la propria vita. Attualmente siamo circa al 10 per cento: per un giovane, oggi, se digitalizzato, il lavoro è importante, ma è anche importante il suo tempo libero. Se non capiamo questo, non riusciamo a comprendere cosa sta succedendo attorno a noi.
Domenico De Masi è un sociologo italiano, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove è stato preside della facoltà di Scienze della comunicazione. Le sue ricerche lo hanno spinto a conoscere il mondo del lavoro anche in altri paesi, soprattutto in Brasile. Noto pubblicista e volto televisivo, De Masi analizza soprattutto i gruppi creativi, la creatività come sintesi di fantasia e concretezza, l’ozio creativo come modalità di lavoro. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui “Mappa mundi. Modelli di vita per una società senza orientamento” (2015, Rizzoli), “Una semplice rivoluzione. Lavoro, ozio, creatività: nuove rotte per una società smarrita” (2016, Rizzoli).