Matematicamente, dato un populista „p“ è sempre possibile trovarne uno più populista ancora, con moltiplicazione (p . p) o elevazione a potenza fino all’infinito: „pn“.

Se dunque ci atteniamo alla definizione corrente di „populismo“ („un atteggiamento ed una prassi politica che mira a rappresentare il popolo e le grandi masse ed a esaltarne i valori positivi“ si comprende facilmente come non appena individuati quei valori – variabili – che in un dato contesto storico e per una data società si prestano più facilmente ad essere presentati come positivi (1) la capacità di raccogliere adesioni ai proclami „populisti“ dipende unicamente dall’abilità retorica e dalla capacità a trovare simboli adatti e nei quali il maggior numero possibile di individui si possano identificare. Al limite si avrà dunque da un lato il valore assoluto positivo al quale si dovrà però necessariamente contrapporre un altrettanto grande valore negativo, sempre in senso matematico, poiché ipotizzato il caso di una società in cui tutti aderissero ai valori positivi, la politica diverrebbe superflua, sarebbe la „fine della storia“ come qualche ingenuo aveva ipotizzato l’indomani della caduta del Muro di Berlino.

La realtà invece mostra che anche in politica vale l’equazione algebrica:

+ . + = + (gli amici dei miei amici sono i miei amici)

ma logicamente anche „- . –  = + “  (i nemici dei miei nemici diventano infatti … miei amici, indipendentemente dalla loro qualità intrinseca, buoni o cattivi che siano, ma unicamente per la loro posizione rispetto al segno, cioè purché siano appunto nemici dei miei nemici).

Dunque per buonisti che siano, i sedicenti „antipopulisti“ esistono unicamente in presenza di „populisti“, laddove i termini sono evidentemente interscambiabili. Tanto è vero che in mancanza di argomenti capaci di analisi e confronto dialettico, alla fine contano unicamente i numeri: chi riesce a mobilitare un maggior numero di pesci riempie maggiormente le proprie reti, in questo caso le piazze. A tal fine, come per i „pescatori“ contano le migliori reti ed esche, per gli agitatori politici contano come esche le parole che possono essere condivise dal maggior numero di individui. Devono essere facili da capire e necessariamente vaghe, come ad es.: „democrazia“, „libertà“, „fratellanza universale“: concetti in cui chiunque si può facilmente e comodamente identificare senza entrare nel merito del vero significato e soprattutto senza dover far nulla di concreto né precisare che cosa significhino in un determinato contesto (2).

Devono anche necessariamente essere indiscutibili, come ad esempio „noi vogliamo salvare il clima“: nessuna persona sensata direbbe ovviamente il contrario! La conseguenza è tuttavia che una volta appropriatisi di queste parole, esse divengono nelle mani dei „populisti/antipopulisti“ immediatamente armi contro coloro che non partecipano al movimento: chi per qualunque motivo ad es. decidesse che non ha alcun senso marinare la scuola per andare ad agitare cartelli con frasi contenenti i soliti luoghi comuni sul cambiamento climatico verrebbe (e viene) immediatamente bollato come „nemico del clima“ (!) o „negazionista“ delle pur discutibili tesi sull’effettiva misura dell’influenza umana sul  cambiamento climatico.

Tutto ciò ovviamente funziona e raccoglie adesioni finché non vengono richiesti impegni personali che toccano lo stile di vita: ad es., sebbene si sappia ed è documentato che l’uso di smartphones, telefonini ed internet richiede maggior consumo energetico che non i trasporti aerei, non risulta che fra i giovani che aderiscono alle kermesse dei „venerdí per il futuro“ vi sia il minimo interesse a ridurre appunto l’uso di questi strumenti. Cosa che sarebbe comunque perfettamente inutile ai fini del cambiamento climatico, poiché è infatti tutto il sistema capitalistico che ha condotto e conduce alla progressiva distruzione del pianeta – e questo sistema è nato e si regge sull’uso delle energie fossili – fortunatamente limitate e che nel giro di un paio di secoli saranno inesorabilmente esaurite.

Ma mettere in discussione il sistema capitalistico non riempirebbe le piazze ma unicamente, forse, una piccola sala per conferenze. E solo per discettazioni teoriche, poiché il capitalismo avanza come una valanga, e come questa non la si può fermare ma unicamente attendere che raggiunga il fondo valle esaurendo lì la sua forza distruttrice.

La perdita del senso della misura e del senso del ridicolo fa sí che ad esempio – sotto il martellamento mediatico – tutta la stampa mondiale e miriadi di fan osannino la prodezza di una povera ragazzina strumentalizzata per deviare l’attenzione dai veri problemi dell’umanità (3) che poi atttraversa l’Atlantico di uno yacht a vela da miliardari per risparmiare emissioni di CO2, quasi che fosse questa la soluzione da proporre a tutti per risolvere il problema del cambiamento climatico. Alla fine rimane l’ipocrisia, come nel caso di quella classe tedesca che mentre da un lato partecipava ai famosi „venerdí per il clima“ aveva già deciso la crociera in Groenlandia per motivi di studio (in Germania è tradizione che nell’anno finale del liceo si compiano questi viaggi, in località turistiche o storiche, spesso in Italia: Roma, Venezia).

Tutto ciò potrebbe appartenere al folclore, si potrebbe sorvolare pensando che si tratta di iniziative effimere senza alcun  seguito concreto (nel bene come nel male: nel 1968 i giovani „rivoluzionari“ dei Paesi occidentali gridavano „Padroni e borghesi, ancora pochi mesi“ … e così fu in effetti, unica conseguenza la fine del movimento operaio e la svendita – ad opera di funzionari sindacali corrotti al servizio dei partiti „popolari“ ancor più corrotti – dei diritti conquistati dai lavoratori con le dure lotte in quegli anni (cfr. in Italia lo „statuto dei lavoratori“, progressivamente smontato fino a ridurlo ad una scatola vuota).

Ma come sempre, al peggio non c’è limite, e come tradizione in questo settore l’Italia ha sempre giocato un ruolo di avanguardia facendo scuola al resto del mondo (anche se poi i discepoli spesso superarono i maestri, come nel caso del fascismo di Mussolini ed il nazismo di Hitler).

Ed eccoci – per il momento in fase giocosa ad una prima mondiale, esseri viventi per natura muti che assurgono a simbolo politico – sono le sardine nostrane, che si muovono in banchi guidate dai cosiddetti „socialmedia“ (twitter, face book).

La prima domanda che viene alla mente è: avremo presto „mute di cani, branchi di lupi, stormi di merli, sciami di mosche, greggi di pecore, mandrie di mucche“ uniti tutti da ideali antipopulisti (o populisti – nel caso i termini sono equivalenti)?

Si raggrupperanno i vegetariani in gregge sotto il simbolo delle pecore per dimostrare contro i branchi di lupi carnivori?

Chiaramente questa „reductio in gradu animalis“ la dice lunga sulla bestialità dei tempi che corrono, ma anche sull’infantilismo che ormai permea a tutti i livelli le nostre società.

Comprensibile dunque, per coloro che come il sottoscritto hanno conosciuto altre stagioni politiche, guardare al passato per cercare di capire il presente ed immaginare un altro futuro che non sia quello ludico e qualunquista dei venerdì senza scuola.

Le associazioni di parole sotto i tratti fonetici sono spesso utili, nel caso per un filologo tedesco la legge di Grimm sulle rotazioni consonantiche (in questo caso però capovolta, poiché qui l’occlusiva sorda è divenuta nel tempo sonora) le „sarDine“ contemporanee mi hanno immediatamente richiamato alla memoria le „sarTine“.

Mi riferisco a quelle di Torino, alle loro lotte di un secolo or sono, nel 1919.

Vale la pena andare a rileggere le cronache di quelle lotte (4), che dimostrano l’esistenza allora di una grande maturità e coscienza di classe che oggigiorno è impensabile anche solo immaginare nel banco delle sardine.

Torino era allora la capitale indiscussa della moda in tutta Europa, stuoli di giovani ragazze lavoravano fino a 15 ore al giorno per paghe di fame. Cioè la stessa cosa che avviene ora in altre parti del mondo, ma con la differenza che a quel tempo, non essendo ancora avvenuto il miracolo della „globalizzazione“ e non essendoci un’UE a garantire la libera circolazione di merci e lavoratori (che poi la circolazione dei lavoratori sia „libera“ è un eufemismo se non un capovolgimento del significato del termine, poiché la realtà mostra che si tratta piuttosto una triste necessità per sopravvivere, come sanno le centinaia di migliaia di giovani che lasciano i Paesi mediterranei le cui industrie sono state annientate dalla politica neoliberista dell’UE), lo sfruttamento avveniva nella medesima città in cui risiedevano i grandi industriali tessili che dettavano le condizioni e traevano enormi profitti. Non potendo „dislocare“ altrove le industrie dove la manodopera lavorava per paghe da fame, gli industriali dell’epoca dovettero cedere dopo i 34 giorni di sciopero, il primo nella storia delle „sartine“, e concedere paghe maggiori ed orari di lavoro più umani. Nota bene, furono le sartine a costringere i funzionari sindacali ad appoggiare le loro rivendicazioni, già allora vi era evidentemente una frattura fra base e rappresentanza sindacale.

Chiaramente le sartine di allora e le sardine attuali non hanno assolutamente nulla in comune a parte la similitudine del nome. Lo sfruttamento è rimasto ed è cresciuto, ma le reazioni dei lavoratori riescono sempre meno a cambiare i rapporti di forza.

Certamente non si possono paragonare le sardine nostrane nemmeno ai „gilet jaunes“ francesi, anch’esso movimento che ha rifiutato i simboli partitici e si è esteso come movimento di massa contro le élites al potere e segnatamente contro la marionetta del sistema insediata dai potentati finanziari per continuare lo spostamento di risorse dalle classi popolari ad un numero sempre più ristretto di benestanti con patrimoni sempre maggiori.

Se in questo particolare momento storico si può azzardare una previsione – che ad alcuni già pare una certezza (5), questa è che nel suddetto movimento di banchi, storni, greggi e via imbestialendo, le sedicenti sinistre in tutta Europa stiano regalando alle destre il potere politico.

La loro illusione di poter mobilitare sardine contro i poteri forti ha all’incirca le stesse probabilità che avrebbe una lumaca di acchiappare una mosca.

Restare prigionieri di vaghi proclami non conduce da nessuna parte, o meglio porta direttamente al precipizio.

Il tratto caratteristico degli attuali „antipopulisti“ (significativamente identico a quello dei loro opponenti „populisti“) è infatti il fatale ed arrogante il rifiuto a discutere sui veri problemi o anche su quelli che giustamente o erroneamente esprimono le classi lavoratrici (es. il timore delle immigrazioni prive di qualunque controllo) e dai „perdenti“ della globalizzazione neoliberista.

Se uniamo a ciò l’ottusità di ambedue i campi nel restare fedeli e sudditi servili di un’UE dominata dal capitalismo finanziario, gestita dalla Germania per i propri interessi egemonici e di euro-imperialismo mitteleuropeo contro le periferie dei Paesi mediterranei – e mettiamoci fra questo rifiuto di vedere la realtà anche la fede assoluta nel dogma della falsa moneta unica – abbiamo il cocktail velenoso che condurrà alle tragedie sociali ed economiche dell’immediato futuro.

L’impressione è di essere in un automezzo guidato da un autista che nella nebbia, ad ogni ostacolo che crede di intravedere, semplicemente aumenta la velocità per evitarlo e non si chiede se non stia magari viaggiando nella corsia sbagliata e verso il disastro.

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Note: 1) (da Wikipedia): Per populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo narodni?estvo) si intende genericamente un atteggiamento ed una prassi politica che mira a rappresentare il popolo e le grandi masse e a esaltarne i valori positivi. Storicamente il termine nasce in riferimento ai movimenti socialisti e anti-zaristi nella Russia della seconda metà del XIX secolo (si veda populismo russo).

2) Es. „patriottismo“ contro „internazionalismo“, „teocrazia“ contro „laicità“, „famiglia, tradizione, stretta regolamentazione dei rapporti sessuali“ contro loro „deregolamentazione“, „protezionismo economico“ contro „globalizzazione“, ecc

3) L’invito alla povera Greta Thunberg a parlare al Forum Economico di Davos (nel ruolo di „foglia di fico“) serviva evidentemente a distogliere l’attenzione dagli altri temi e soprattutto a dare uno sfogo alle temute proteste contro le conseguenze della religione neoliberista, una teoria priva di base scientifica, screditata dai fatti ma mantenuta come utilissimo dogma per soggiogare i popoli.

4) https://sites.google.com/site/sentileranechecantano/schede/cgil/–le

5) http://www.chartasporca.it/dalla-tragedia-alla-farsa-la-crisi-del-capit

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