Assurdo considerare islamico il Muro del Pianto. Il giudizio dell’Unesco contrasta con la vita plurisecolare di Israele ed offende gli Ebrei
E’ necessario un breve ripasso di storia per capire l’inevitabile reazione degli Israeliani alla decisione, presa l’ottobre scorso dall’Unesco, secondo cui il Muro del Pianto e il sito del Tempio di Salomone non fanno parte della storia dell’Ebraismo ma dell’Islam. Giudizio che ha comportato la cancellazione dei nomi semitici di quelle aree, sostituiti con termini arabi. Un’assurdità dovuta o ad ignoranza o, peggio, all’antisemitismo dei 24 Paesi che hanno votato a favore dell’argomento presentato da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, cioè da Nazioni musulmane, oppure dei 26 (Italia compresa) che si sono astenuti.
Contrari solo 6 Paesi (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda), consapevoli del fatto che Il Primo Tempio prende nome da Re Salomone che lo fece costruire nel X secolo a.C. Completamente distrutto da Nabucodonosor II nel 586 a.C., 50 anni dopo, al ritorno dall’esilio babilonese, gli Israeliani fabbricarono un’altra sinagoga, nel 168 a.C. danneggiata da Antioco IV Epifane, re della Mesopotamia. Nel 19 a.C. il re dei Giudei, quell’Erode il Grande che, secondo San Matteo, ordinò la strage degli Innocenti, volle ampliarla ma morì prima della conclusione dei lavori che terminarono nel 64 d.C. e comprendono anche la costruzione di imponenti mura intorno al Monte Moriah, poi chiamato Monte del Tempio.
Quando, nel 70 d.C, le legioni romane di Tito distrussero il Tempio, salvarono una parte del muro, ora definito “Muro del Pianto”, per far ricordare la sconfitta ai Giudei. Che, invece, attribuirono il fatto alla promessa di Jahvè, il loro Dio, di proteggere alcune parti del Tempio, come segno del Suo legame con gli Israeliani. I Musulmani, convinti che il terzo re d’Israele, Salomone, sia il loro profeta Sulayman, citato nel Corano, lo chiamano al-Burāq. Vicino al quale, nel 687, costruirono la Cupola della Roccia, nonché la moschea di Omar. Nel 1517 l’Impero ottomano conquistò Israele e la Giudea che rimase in possesso degli Islamici fino al 1967, cioè al termine della Guerra dei sei giorni vinta dagli Israeliani che demolirono il medievale Quartiere Marocchino e costruirono una grande piazza nello spazio di fronte al muro, utilizzato da migliaia di ebrei durante le loro ricorrenze religiose.
Assurda, quindi, la decisione “definitivamente adottata, senza bisogno di una seconda votazione”, dell’Unesco di negare il legame millenario degli Ebrei con la Città vecchia dove sorge il Muro del Pianto, luogo sacro agli Israeliani di tutto il mondo. Da qui la veemente contestazione effettuata dagli Israeliani, irritati anche per il fatto che, nel testo presentato per “tutelare il patrimonio culturale della Palestina e il carattere distintivo di Gerusalemme Est”, i luoghi santi della Città Vecchia fossero indicati solo con termini arabi.
Inevitabile pure la critica del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Al quale, nell’agosto scorso, non era piaciuta la frase “Palestina occupata” con cui l’Onu aveva condannato la gestione della Città Vecchia di Gerusalemme, il luogo più sacro per gli Ebrei che, due anni prima, avevano lanciato un missile sulla strada in cui si trovava una scuola dell’UNRWA, cioè del ricovero di emergenza per 2.900 profughi palestinesi, uccidendone parecchi. Frase che aveva portato all’interruzione della cooperazione dello Stato ebraico con l’Onu.
Netanyahu ha commentato la soluzione dell’Unesco con la frase “dire che Israele non ha connessioni con il Monte del Tempio e il Muro del Pianto è come dire che la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l’Egitto con le piramidi”. Questo mette bene in evidenza l’ignoranza o la malafede di chi ha votato a favore. Giudizio al quale il vice ambasciatore palestinese all’Unesco, Mounir Anastas, risponde sottolineando che la risoluzione “chiede ad Israele di mettere fine alle sue violazioni”, compresi gli scavi archeologici intorno ai siti religiosi.
Non è la prima volta che l’Unesco si trova al centro di polemiche: i Paesi arabi hanno più volte promosso risoluzioni per mettere sotto pressione Israele e i suoi alleati. Tanto da far dire alla direttrice generale dell’Agenzia, Irina Bokova, che “nessun posto più di Gerusalemme è spazio condiviso di patrimonio e tradizioni per ebrei, cristiani e musulmani. La sua eredità è indivisibile e ciascuna delle sue comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della propria storia e al rapporto con la città. Negare, nascondere o eliminare qualsiasi delle tradizioni ebraiche, cristiane o musulmane mina l’integrità del sito e contrasta con le ragioni che hanno giustificato la sua iscrizione nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco”. Un giudizio che va condiviso.