Il primo maggio rimane solo una festa dove non si lavora e dove si organizzano concerti e baldoria, per ricordare qualcosa di importante che sta venendo meno soprattutto da più di un anno? Dal secolo scorso la giornata del primo maggio ha sempre avuto un profondo significato di unità e di comunione tra tutti i lavoratori, per sottolineare il loro ruolo nella struttura della società e per difendere i loro diritti; pertanto, non bisogna mai dimenticare anche l’affetto che la Chiesa ha sempre avuto per i lavoratori e la sollecitudine con cui ha cercato e cerca di promuovere i loro diritti. È noto come specialmente dall’inizio dell’era industriale, la Chiesa, seguendo lo svolgersi della situazione e lo svilupparsi delle nuove scoperte e delle nuove esigenze, ha presentato un “corpus” di insegnamenti in campo sociale, che certamente hanno avuto e hanno tuttora il loro influsso illuminante, a cominciare dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891).
Chi onestamente cerca di conoscere e di seguire l’insegnamento della Chiesa, vede come in realtà essa abbia sempre amato i lavoratori, e abbia indicato e sostenuto la dignità della persona umana come fondamento e ideale di ogni soluzione dei problemi riguardanti il lavoro, la sua retribuzione, la sua protezione, il suo perfezionamento e la sua umanizzazione. Attraverso i vari documenti del magistero della Chiesa emergono gli aspetti fondamentali del lavoro, inteso come mezzo per guadagnarsi da vivere, come dominio sulla natura con le attività scientifiche e tecniche, come espressione creativa dell’uomo, come servizio per il bene comune e come impegno per la costruzione del futuro della storia.
Ma se si parla di lavoro, come la festa del Primo Maggio spinge a fare, non si può non ricordare la splendida enciclica Laborem Exercens di Giovanni Paolo II (del 14 settembre 1981) che rimetteva il lavoro al centro della vita sociale, considerandolo sì un dovere e un diritto, ma anche e soprattutto un bene. Solo una rilettura approfondita e commentata potrà permettere di comprendere come abbia influito sul pensiero degli economisti e dei politici in tutto il mondo proprio per la sottolineatura degli aspetti che superano diritti, problemi e condizioni di lavoro.
Nell’enciclica Laborem Exercens è ben specificato che, “il lavoro è un bene dell’uomo, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza sé stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo”.
Ecco perché la festa del Primo Maggio è molto opportuna per ribadire il valore del lavoro e della “civiltà” fondata sul lavoro, contro le ideologie che sostengono invece la “civiltà del piacere” o dell’indifferenza e della fuga. Ogni lavoro è degno di stima, anche il lavoro manuale, anche il lavoro ignoto e nascosto, umile e faticoso, perché ogni lavoro, se interpretato nel modo esatto, è un atto di alleanza con Dio per il perfezionamento del mondo; è un impegno di liberazione dalla schiavitù delle forze della natura; è un gesto di comunione e di fraternità con gli uomini; è una forma di elevazione, in cui si applicano le capacità intellettive e volitive. Gesù stesso, il Verbo divino incarnatosi per la nostra salvezza, volle prima di tutto e per tanti anni essere un umile e solerte lavoratore!
Gettando, poi, lo sguardo sull’intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall’altra esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all’interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale – per quanto concerne l’organizzazione del lavoro e dell’occupazione – vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza sociale. Il problema primo e più grave è certamente quello della disoccupazione, causato da tanti fattori, e soprattutto oggi dalla Pandemia, ma anche l’introduzione su vasta scala dell’informatica, che per mezzo dei robot e dei computer elimina molta manodopera; la saturazione di alcuni prodotti; l’inflazione che arresta il consumo e quindi la produzione; la necessità della riconversione di macchine e di tecniche; la competizione, per cui bisogna stare attenti al pericolo che l’uomo diventi schiavo delle macchine da lui stesso inventate e costruite. È necessario, infatti, dominare e guidare la tecnologia, altrimenti essa si mette contro l’uomo. Ed infine possiamo citare anche la grave questione dell’alienazione professionale, per cui si perde il significato autentico del lavoro, lo si intende solo come merce, in una fredda logica di guadagno per poter acquistare benessere, consumare e così ancora produrre, cedendo alla tentazione della disaffezione, dell’assenteismo, dell’egoismo individualista, dell’avvilimento, della frustrazione e facendo prevalere le caratteristiche del cosiddetto “uomo ad una dimensione”, vittima della tecnica, della pubblicità e della produzione. Il lavoro è un bene dell’uomo!