Le discussioni sulla difesa comune europea hanno ripreso vigore dopo l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Francia. È giunto il momento di creare un esercito comune europeo sotto l’autorità di un Alto consiglio di sicurezza, sostiene il giornalista ed ex deputato europeo radicale Olivier Dupuis.
Quando parliamo di “esercito europeo”, cosa intendiamo? Un esercito europeo unico o comune? Un esercito intergovernativo o sottoposto al comando delle istituzioni europee? Un esercito costituito da contingenti nazionali o composto da soldati europei? Sulla base delle risposte a queste tre domande, gli scenari che emergono sono molto diversi, sia in una configurazione (improbabile) a 27, sia con un modello che raggruppi solo alcuni stati membri, attraverso una Cooperazione Strutturata Permanente.
Un esercito europeo unico e intergovernativo
Si tratterebbe di un’alleanza più o meno organica tra gli eserciti nazionali dei Paesi membri dell’Unione o di alcuni di essi. Una riedizione, in qualche modo, della Comunità Europea di Difesa (CED) nella quale l’autorità rimaneva nelle mani dei soli stati. In un tale scenario rivisitato, sono gli eserciti nazionali nella loro integralità che verrebbero messi sotto l’autorità intergovernativa europea rimanendo tuttavia, in prima istanza (potere decisionale, organizzazione, bilancio) e in ultima istanza (diritto di veto al livello intergovernativo europeo), sottomessi all’autorità del loro stato rispettivo.
La dinamica di integrazione sarebbe estremamente debole, se non inesistente. Inoltre, si può immaginare senza difficoltà che numerosi stati, in particolare i più “piccoli”, si guarderebbero bene dal mollare l’osso, ossia la Nato, con ciò che questa organizzazione comporta in termini di garanzia di sicurezza (articolo 5, dissuasione dal forte al forte garantita dalla presenza degli Stati Uniti, potenza dell’esercito convenzionale americano…) per un miraggio, cioè per un esercito unico europeo che si somiglierebbe sostanzialmente alle alleanze dei vecchi tempi andati.
Un esercito europeo unico e comunitario
In questo scenario, gli eserciti nazionali sarebbero integrati in un grande esercito europeo sottoposto al comando delle istituzioni europee comunitarie: Commissione, Consiglio, Parlamento europeo e, per il via libera a qualsiasi ingaggio, Consiglio Europeo dei Capi di stato e di governo in qualità di Alto Consiglio Europeo di Sicurezza. Il “prodotto finito” sarebbe senza dubbio un esercito risolutamente più europeo.
Questo scenario comporta tuttavia degli aspetti particolarmente problematici. Esso suppone l’articolazione di eserciti nazionali dalle tradizioni, modi di organizzazione e di ingaggio molto diversi senza usufruire, come nella Nato, della potenza o del concorso integratore degli Stati Uniti. Esso implica inoltre la gestione di una tensione molto forte tra, da una parte, un’architettura europea di decisione comune e, dall’altra, strumenti – gli eserciti – che continuerebbero a dipendere, in ultima istanza, dal loro stato membro rispettivo. Infine, esso costringerebbe ad affrontare immediatamente la questione delicata dell’articolazione politica e militare tra la forza di dissuasione francese e l’esercito comune oltre alla questione della sicurezza e della difesa dei territori d’oltremare che non fanno parte dell’Unione europea.
Alcune recenti decisioni dell’Unione, come quelle che prevedono la creazione di uno “Stato maggiore” europeo, di un fondo per la ricerca in materia militare etc., sono riconducibili a questo scenario nella misura in cui si iscrivono nel quadro comunitario. Ma il ritmo di attuazione di tali iniziative sembra rimandare l’avvento di un tale esercito europeo alle calende greche.
Un esercito europeo comune e intergovernativo
Diversamente dai due scenari precedenti, questo esercito “europeo” sarebbe composto da segmenti di eserciti nazionali e non dagli eserciti nazionali nel loro insieme. La proposta di creazione di Battle groups europei, rilanciata di recente, rientra in questo scenario. I suoi due principali limiti sono l’esposizione ai cambiamenti di maggioranza governativa in uno qualsiasi dei Paesi membri, e il prestare il fianco ai rischi di ricatto in caso di intervento. Come dimostrano numerose esperienze di interventi armati della storia recente (Bosnia, Ruanda, Iraq, Afghanistan…), è estremamente facile (prese di ostaggi, operazioni suicide…) fare pressione su un Paese che partecipa ad una iniziativa internazionale, in questo caso europea, per spingerlo a ritirare il suo contingente.
Inoltre, un esercito di questo tipo aggraverebbe – invece di attenuarle – le rivalità nazionali per quanto riguarda la questione del comando e, soprattutto, per quanto riguarda la scelta dei tipi di armamenti, oggi prevalentemente nelle mani di industrie nazionali.
In questa categoria rientrano le diverse esperienze di integrazione in materia di sicurezza e di difesa che sono emerse nel corso degli ultimi trent’anni: Eurocorps, Brigata franco-tedesca… Il dispiegamento operativo di questi corpi è stato praticamente inesistente, proprio in ragione della persistenza delle appartenenze nazionali delle diverse componenti. Infine, benché con una connotazione più imperiale che europea, è sempre in questa categoria che occorre collocare la politica tedesca di integrazione nell’ambito della Bundeswehr di brigate olandesi, rumene e ceche o anche, domani, di brigate finlandesi e svedesi.
Un esercito europeo comune e comunitario
Contrariamente all’Esercito europeo unico e comunitario, l’Esercito europeo comune e comunitario che personalmente auspichiamo si sovrapporrebbe agli eserciti nazionali. Collocato sotto l’autorità esclusiva delle istituzioni europee – Commissione, Consiglio, Parlamento e Alto Consiglio Europeo di Sicurezza composto dai Capi di stato e di governo degli stati membri partecipanti – , sarebbe composto di ufficiali e di soldati europei. Si tratterebbe quindi di un esercito creato ex novo.
Stranamente, si tratta dell’ipotesi meno discussa e, quando lo è, di quella che viene eliminata con più disinvoltura. Ragione per la quale la svilupperemo qui più a lungo. Quali sono le certezze invocate per denigrare questa opzione? Per i suoi detrattori, l’assenza di legittimità delle istituzioni politiche europee chiamate a prendere delle decisioni di vita e di morte sarebbe, essa sola, insormontabile. La cosa non finisce di meravigliare se si tiene conto di una configurazione istituzionale in cui qualsiasi decisione d’ingaggio proposta dal Presidente della Commissione dovrebbe essere ratificata dall’Alto Consiglio Europeo di Sicurezza composto dai Capi di stato e di governo, il quale, per di più, prenderebbe le sue decisioni a maggioranza qualificata.
Taluni evocano anche l’enorme difficoltà di creare un nuovo esercito dal nulla. Argomento che equivale a liquidare sia il know how dei militari dei vari eserciti nazionali che due recenti esperienze: la creazione dell’esercito croato nel 1991 e, più recentemente, la creazione praticamente ex-nihilo dell’esercito ucraino.
Si invoca persino l’impossibilità intrinseca di poter far affidamento su un patriottismo europeo, ossia su una volontà d’ingaggio da parte di soldati ed ufficiali che combatterebbero in quanto europei e non più in quanto cittadini di un Paese membro. Argomento quanto mai sorprendente se si tiene in conto che alcune tra le unità più prestigiose (e più utilizzate sui teatri di operazione esterni) di alcuni stati membri sono composte a maggioranza da cittadini di Paesi terzi(6). Ancor più sorprendente se solo si rammentano tutti i soldati venuti da altrove che costituirono la maggior parte delle truppe che hanno liberato l’Europa occidentale nel 1944 e, ancora più insabbiati nelle segrete della storia, le decine di migliaia di nordafricani e africani morti in Europa durante la Prima e la Seconda Guerra mondiale. Tutto questo è ancora più sorprendente quando si ricordi che la storia della costruzione europea ha mostrato che la “neutralità” nazionale dei funzionari della Commissione europea è considerata per lo più un successo, proprio come quella, per esempio, dei Giudici della Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Infine, ed è l’argomento definitivo, si cita l’assenza di mezzi finanziari in un’Europa in crisi. Ma, a meno di partire dal postulato secondo il quale sono da prendere in considerazione solo i fattori che minacciano la nostra coesione interna, economica e sociale, e di considerare inoltre che questi non sono collegati a fattori esterni, è imperativo interrogarsi sulla capacità reale di ciascuno degli stati membri e dell’Unione nel suo insieme di rispondere oggi alle minacce esterne. Benché queste non siano tutte di tipo militare, tutt’altro, rimane il fatto che l’irruzione alle nostre frontiere di una Russia in cerca di rivincite che rimette in discussione, con la forza delle sue baionette, le frontiere di stati europei (Georgia, Moldavia, Ucraina), così come la debolezza se non addirittura il collasso di stati nelle immediate vicinanze dell’Europa (Iraq, Siria, Libia, Mali, …) e l’ascesa dei fenomeni terroristici che li precedono, li accompagnano o ne derivano, abbinati ad un’accentuazione della tendenza isolazionista degli Stati Uniti, pongono con un’urgenza radicalmente nuova la questione della sicurezza e della difesa dell’Unione.
È in risposta a questa situazione nuova che i Paesi membri della Nato si sono dati, in occasione del Vertice di Cardiff nel 2014, l’obiettivo di dedicare da qui al 2024, 2 per cento del loro Pil alla difesa.
La difesa dell’Europa e il riarmo tedesco
Come gli altri paesi membri della Nato, la Germania si è impegnata a dedicare il 2 per cento del suo Pil alla difesa. Benché non abbia valore giuridico, quest’impegno preso di fronte e insieme agli altri membri della Nato ha un significato politico forte. Concretamente, significa che le spese militari tedesche potrebbero ammontare nel 2024 a circa 62 miliardi di euro. La Francia, che vi dedica già, secondo il Sipri, il 2,2 per cento del Pil, dovrebbe vedere allo stesso momento, rebus sic stantibus, le sue spese militari ammontare a circa 50 miliardi di euro, di cui 3,5 miliardi dedicati alla forza di dissuasione nucleare e 2,5 miliardi alla modernizzazione di quest’ultima, ossia circa 44 miliardi di euro per le sue forze convenzionali. Nella stessa configurazione, le spese militari dell’Italia e della Spagna dovrebbero ammontare nel 2024 a rispettivamente 34 e 22 miliardi di euro.
A queste cifre, molto più eloquenti di lunghi discorsi, vanno aggiunti altri fattori che concorrono ad anticipare la storia che verrà. La politica di integrazione nella Bundeswehr di parti sostanziali di eserciti nazionali di altri stati membri, imperiale per difetto e mercantile per scelta, ha in effetti delle forti implicazioni in termini di scelta degli armamenti per questi eserciti “integrati” ed è fonte di ricadute importanti sull’industria tedesca della difesa che alcuni considerano già come dominante in Europa.
“L’unico esercito europeo è l’esercito francese”
Se la Francia è senza dubbio, tra i Ventisette, il Paese che possiede oggi l’esercito più competitivo, dotato del più alto livello di autonomia, ciò non fa automaticamente di esso un esercito adeguato al livello richiesto per rispondere in modo autonomo alle minacce alle quali l’Europa deve far fronte. Il bislacco intervento franco-britannico in Libia, nel quale il sostegno della Nato fu decisivo, e il triste fiasco dell’intervento abortito in Siria in seguito al voltafaccia del presidente americano e al “ritiro” della Francia lo dimostrano ampiamente. Più prosaicamente, una forza aeronavale a tempo parziale, un deficit in termini di intelligence satellitare etc. ci ricordano che non basta essere migliori di tutti gli altri per essere all’altezza.
Persino postulando che alcuni stati membri decidano e gli altri paghino, ciò non fa dell’esercito francese un esercito europeo, tutt’altro. Nella stessa misura in cui l’euro non poteva essere il deutschmark – e non lo è, come testimonia tra l’altro il funzionamento del Consiglio dei Governatori della Bce, dove la Germania è non di rado all’opposizione -, un esercito europeo non può essere un esercito nazionale o l’emanazione di uno di questi.
Last but not least, la Francia si troverà di fronte, in un orizzonte temporale ravvicinato, a delle scelte strategiche che annunciano arbitraggi di bilancio intricati: modernizzazione della dissuasione nucleare, costruzione di una seconda portaerei, investimenti nella cyber-guerra, ideazione e costruzione del modello successore del Rafale, solo per limitarci ad alcuni dei settori dove investimenti importanti saranno o sarebbero necessari.
Un esercito impagabile
Al netto dei contributi dell’indispensabile libro bianco sulla difesa europea del generale Perruche e quindi della messa in movimento delle molteplici competenze in materia di sicurezza e di difesa di cui dispongono i Ventisette, si può, sulla base delle principali minacce evocate più in alto, immaginare ciò che potrebbe costituire il primo nucleo di questo esercito comune: tre divisioni di intervento rapido di stanza nei Paesi baltici, in Slovacchia e in Romania (45.000 soldati); tre gruppi aeronavali di stanza nei Paesi baltici, in Grecia e in Portogallo; un servizio di intelligence militare con delle forti capacità satellitari; un servizio dedicato al cyber-warfare; un esercito dotato di un bilancio equivalente allo 0,3 per cento del Pil, una trentina di miliardi di euro, su per giù quanto genererebbe la Tassa sulle transazioni finanziarie.
I vantaggi innegabili di un Esercito europeo comune e comunitario
Il primo merito, indiscutibile, di questo esercito sarebbe quello di contribuire, per via del solo fatto di esistere, alla coesione di una costruzione europea che ne ha un forte bisogno. Grazie al processo istituzionale nel quale verrebbe inserito, esso costituirebbe l’occasione e il mezzo per creare un luogo di costruzione della fiducia tra gli stati membri in un campo dove sospetti, diffidenze, rivalità secolari e interessi nazionali consolidati sono numerosi.
Esso, pur senza rimettere in discussione l’appartenenza alla Nato, rafforzerebbe ipso facto la nostra difesa nei confronti del grande vicino dell’Est e, al contempo, rassicurerebbe i Paesi dell’Unione che condividono delle frontiere con esso. Ci “aiuterebbe a sviluppare una politica estera e di sicurezza comune”, come ha sottolineato il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e, di conseguenza, a ritrovare una voce in capitolo nei dossier “caldi” nei quali svolgiamo oggi – nella migliore delle ipotesi – solo un ruolo di complemento (Siria, Iraq, Paesi del Golfo…).
Esso contribuirebbe poi all’emergere di un mercato europeo degli armamenti globalmente autosufficiente e, in tal modo, di un’industria europea di difesa più integrata, fonte di notevoli economie, come sostenuto dal Parlamento europeo nel 2015. Ciò facendo, consentirebbe, come preconizzava il generale de Gaulle, di accompagnare eventualmente una politica estera con la vendita di armamenti e non più, come accade troppo spesso oggi, di imperniare le politiche estere sulle possibili vendite di armamenti.
Esso, inoltre, renderebbe possibile la salvaguardia di know how militari e tecnologici, in particolare in campi molto dispendiosi (satellitare, aeronavale, informatico, aeronautico…). Offrirebbe così una risposta, anche se certamente parziale, alla spinosa questione del bilancio europeo, aumentandolo del 30 per cento.
Costituirebbe altresì un inizio di risposta al sentimento di impotenza instillato nei cittadini europei da decenni di incapacità a rispondere politicamente, in tempo debito, a crisi, guerre e genocidi perpetrati a qualche ora di aereo dall’Europa – ieri in Jugoslavia, Ruanda, Cecenia, oggi in Ucraina, Siria e Iraq.
Infine, contrariamente a molte iniziative comprensibili dai soli esperti, un esercito europeo comune e comunitario rappresenterebbe, come l’euro, che continua, a dispetto di tutti i suoi difetti di ideazione, ad essere plebiscitato dai cittadini europei, una realizzazione tangibile di cui essi potrebbero misurare concretamente l’utilità e che potrebbero fare propria.