La rimozione degli striscioni “Verità per Regeni” e il rischio che la memoria venga perduta
Memoria e oblio sono legati da un filo sottile e impalpabile, robusto e fragile al tempo stesso. Sta a noi impedire a quel filo di spezzarsi e capire come renderlo forte e durevole. Sta a noi capire cosa può disfarlo fino al punto di causarne la rottura. Sta a noi individui la libertà di scegliere se custodire la memoria o permettere che si dissolva nell’oblio. Quando poi da individui diventiamo comunità e ci riconosciamo nella società civile che formiamo vivendo insieme, a quella libertà individuale si aggiungono la responsabilità collettiva, il sentire comune e la condivisione di bisogni e valori.
Fino ad alcune settimane fa, a Trieste, nella bellissima piazza Unità d’Italia, sul balcone del palazzo della Regione Friuli Venezia Giulia c’era uno striscione giallo con la scritta “Verità per Giulio Regeni”. Ora non c’è più. Per decisione del presidente della Regione, il leghista Massimiliano Fedriga, è stato rimosso. Quello striscione esprimeva un sentimento condiviso di solidarietà da parte dei cittadini friulani nei confronti di un altro cittadino friulano, morto lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, ammazzato per i valori in cui credeva, rimasto ucciso mentre cercava di raccontare la trasformazione democratica di una società che amava e studiava, quella egiziana della primavera araba. Con la sua visibilità quello striscione affermava l’esigenza di un’intera comunità di conoscere la verità sull’assassinio di Giulio Regeni.
La rimozione dello striscione ha suscitato le critiche di esponenti della politica e della società civile. Eviteremo di riportarne contenuti e toni, tuttavia, a tre anni e mezzo dalla scomparsa di Giulio Regeni, a noi preme poter fare una riflessione sul significato di quegli striscioni nell’Italia e nell’Europa di oggi. Dopo la morte di Giulio striscioni come quello di Trieste erano apparsi in molte città italiane sulle facciate dei palazzi storici o nelle piazze principali. Tutti uguali, tutti gialli, tutti con la scritta “Verità per Giulio Regeni” e con il logo di Amnesty International. Recentemente alcuni di loro sono stati rimossi, semplicemente e senza troppo clamore e dopo Trieste c’è da temere che presto scompariranno del tutto contribuendo a gettare nell’oblio una storia per la cui memoria dovrebbe mobilitarsi non solo l’Italia, ma l’intera Europa.
Purtroppo quello che in Italia è stato il caso politico più noto, seguito e discusso, e che ora rischia l’oblio è praticamente sconosciuto nel resto d’Europa. Sicuramente lo è in Germania. Dispiace constatare che questa scarsa attenzione abbia riguardato non solo la politica, ma anche stampa. Dispiace perché è un ulteriore segno di quanta strada ci sia da fare perché l’Europa, quella della società civile in primis, si compia. Il caso Regeni riguarda, sì, un cittadino italiano, ma riguarda anche un cittadino europeo. Un europeo che si era messo a studiare il processo di democratizzazione di un paese come l’Egitto. Questione non di poca importanza per l’Europa in anni in cui lo scontro tra culture, il terrorismo e l’emergenza migratoria sono cresciuti tanto da rischiare di sfasciarla.
Giulio Regeni era un ricercatore dell’università di Cambridge. Era in Egitto per fare ricerche sui sindacati indipendenti. Il 25 gennaio 2016, giorno della sua scomparsa, era al Cairo. Quel giorno era il quinto anniversario della rivoluzione iniziata nel 2011, quando molti speravano che il vento della primavera araba potesse portare libertà e democrazia in una vasta area del mondo arabo. Sappiamo come sono andate le cose. Dopo il colpo di Stato del generale Al-Sisi del luglio 2013, alla fine del 2014 c’erano stati pallidi segni di vitalità da parte dei sindacati indipendenti e Giulio, che conosceva l’arabo, aveva potuto partecipare ad alcune delle loro riunioni. Era dunque un testimone eccezionale e unico, unico perché nessun altro faceva quello che lui stava facendo.
Giulio Regeni non era solo un ricercatore. Era anche giornalista e da tempo collaborava con il Manifesto. Nel suo ultimo articolo dal titolo “In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti” scrisse di un’affollata assemblea di uomini e donne e del loro desiderio di libertà. Di seguito ne riportiamo un ampio estratto:
“Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba. Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano. … Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati. Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria e il Cairo. … Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza. … L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («a Tahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta). … L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra al terrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile”.
Leggendo le parole di Regeni capiamo perché, probabilmente, per conoscere la verità bisognerà aspettare la caduta di al-Sisi. Ma ciò non giustifica che nel frattempo si rinunci a pretenderla, la verità.
Giulio venne brutalmente ucciso agli inizi di febbraio 2016. Qualche settimana dopo la famiglia poté riavere il corpo. La madre denunciò la ferocia degli aguzzini affermando di aver visto, sul volto del figlio, “tutto il male del mondo”. E chiese di sapere perché. Per rinnovare la sua richiesta il 15 giugno 2016 si recò a Bruxelles davanti all’europarlamento. Come italiani ed europei proviamo affetto e riconoscenza per Giulio Regeni e per la famiglia. Nello stesso tempo proviamo indignazione per la mancanza di unità della politica, anche quella europea, di fronte al suo omicidio. E troviamo incomprensibile il comportamento di governi come la Francia che pur avendo in casa il terrorismo hanno venduto e vendono armi al regime egiziano.
L’Ue non dovrebbe consentire che affari e interessi economici di singoli Stati prevalgano sui principi dell’Unione. Ma questa è solo una delle tante contraddizioni che hanno minato e minano le basi del progetto europeo.
Vedremo se e cosa cambierà con la presidenza di Ursula von der Leyen, già ministra della difesa della Germania federale.
Giulio rappresenta l‘Italia più sana e più bella e il suo ricordo deve durare, contro l‘ottusità di chi vuol rimuovere gli striscioni. Deve durare in Italia e anche in Europa. Esigere la verità sul caso Regeni è un dovere morale che tutti i cittadini europei dovrebbero sentire. Per non dimenticare Giulio bisognerebbe che in tutte le grandi città del vecchio continente fossero esposti striscioni come quello che era esposto a Trieste. Almeno servirebbero a domandarsi chi era Giulio Regeni e, forse, conosciuta la risposta, stimolerebbero la riflessione sull’importanza della solidarietà e della memoria quali presupposti per costruire una coscienza europea.