“Il Coronavirus non è finito, come dimostra la pesante epidemia di Omicron in Portogallo”, ha affermato Frank Ulrich Montgomery, presidente della World Medical Association, in un’intervista al quotidiano Rheinische Post. E la Germania corre ai ripari: i vertici dei 16 Stati tedeschi si sono riuniti per discutere le misure che potrebbero essere messe in atto per contrastare un nuovo picco di casi nel corso dell’anno. “La pandemia non è finita, ma la fase dell’emergenza sì, perché larga parte della popolazione è immunizzata e protetta dalle forme gravi di malattia, anche se meno dal contagio. Ora possiamo gestire con strumenti ordinari una cosa che resta seria”, afferma Sergio Abrignani, immunologo dell’Università Statale di Milano e membro del Comitato tecnico scientifico.
In merito alla possibilità di una nuova ondata, Abrignani spiega che “questo è un virus nuovo e imprevedibile. Quello che possiamo fare è continuare a monitorarlo bene per intervenire se serve. Ma generalmente con la bella stagione i virus respiratori si attenuano. Speriamo sia così anche in questo caso”.
“Prima dei vaccini avevamo una letalità di un caso su 50. Ora con Omicron la letalità è di un caso su 500-1.000 quando a contagiarsi è un vaccinato ma è di uno su 100 tra i non vaccinati – afferma – ma questa variante è anche il virus più infettivo che si sia mai visto circolare tra gli umani”, ricorda l’immunologo. Però, data la sua contagiosità, “è chiaro che con tante infezioni un numero elevato di ricoveri e morti si può ancora verificare. Ma dovrebbe comunque essere più contenuto dell’era pre-vaccini, perché tra vaccinati e guariti ora circa il 90% della popolazione ha un certo livello di immunità verso le forme gravi di malattia”.
Anche il super Green pass verrà superato. Uno strumento che ha contribuito a far vaccinare almeno un milione di persone e parliamo di almeno mille morti evitate.
Sulla possibilità di togliere le mascherine al chiuso nasce comunque la polemica sia in Italia che in Germania, anche se c’è chi dice che: “Obbligo o non obbligo al chiuso bisognerebbe portarla. Con l’estate e vivendo molto all’aperto tutto era più facile, ma ora al chiuso di una sala piena, con un ricambio d’aria relativamente basso, togliersela non sarebbe una buona idea”. Ma l’emergenza è finita allora oppure no? E quindi perché infondere ancora paura anziché pensare di far riflettere in base alle situazioni che potrebbero crearsi. Basti pensare che anche in chiesa, alcune diocesi tedesche dal primo di ottobre hanno rimesso l’obbligo di indossare la mascherina. Ma il Green Pass e l’obbligo appartengono a un momento storico preciso che ci ha aiutato a uscire dalla pandemia. Tali misure hanno avuto un ruolo importante in un periodo preciso e ci hanno portati ai buoni risultati di oggi. Oggi non possono esserci timori di questo tipo. Lo ha affermato anche il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri. In un mondo politico pieno di persone senza spessore e alla caccia di posti, durante l’epidemia Sileri ha dimostrato di essere una persona seria, documentata, precisa, mai sopra le righe, uno che è stato intervistato mille volte, ma che non ha partecipato allo show mediatico di chi la urlava più grossa.
Evidentemente era un bravo medico prestato alla politica e che ora – forse un po’ disgustato – ringrazia, prende il cappello, saluta e se ne va. Sulla possibilità che si verifichino nuove ondate il sottosegretario afferma: “Io le definirei oscillazioni, non ondate. Sono del tutto normali, ma in Italia abbiamo fatto un buon lavoro, la gran parte delle persone hanno incontrato il virus in modo naturale o artificiale e si sono immunizzate. Inoltre, i vaccini creati su ceppo originario di Wuhan hanno funzionato bene anche su tutte le varianti successive. L’ultima oscillazione non ha creato grandi problemi, né dovrebbero crearne quelle che arriveranno nelle prossime settimane. Andiamo verso l’endemia”, ed un vaccino obbligatorio invece non servirà. Ma quali sono i veri punti caldi oggi in un mondo post pandemia? Sono il lavoro, i salari e le pensioni con il potere d’acquisto rosicchiato (o forse divorato) dall’inflazione, le bollette in arrivo da crisi energetica che pesano su fabbriche e famiglie, i giovani a cui serve un impiego che possa garantire loro di stipulare un mutuo senza che la banca storca il naso, le aziende che hanno posti liberi che non riescono a occupare: non sorprende l’elenco dei temi ed oggi più che mai anziché continuare a incutere terrore con una pandemia divenuta endemia andrebbe affrontato con decisione quello del caro vita e del caro energia.
Oggi viene richiesto un impegno maggiore agli operai, non necessariamente a fronte di straordinari che alzerebbero il salario. Sarebbe una beffa doppia se, dopo questo periodo in cui ci si tira il collo, la produzione rallentasse fino a dover ricorrere alla cassa integrazione. Parlando di pensioni non conta solo il quando, ma anche il come. Se si lascia il lavoro dopo 41 anni, ma non si ha abbastanza risorse per vivere, diventa un problema. Altrettanto urgente è la questione delle giovani generazioni, quelle che non riescono a entrare in azienda proprio mentre le imprese avrebbero bisogno di manodopera: non c’è un settore del tessuto italiano esente da questa crisi. L’energia elettrica e il gas sono un bene di prima necessità, il realismo impone la prudenza nel breve termine, ma senza smettere di guardare, realisticamente, al medio e lungo periodo, superando le comprensibili ansie del “presentismo”.
Con realismo, per quanto sia sgradevole dal punto di vista dell’ambiente, bisogna riconoscere che la macchina della crescita globale ha ancora bisogno di combustibili fossili: da anni non sono più stati fatti investimenti importanti nell’estrazione e nell’esplorazione, oggi facciamo i conti con strozzamenti strutturali nella raffinazione. Lo sfasamento tra l’offerta e la domanda è una condizione destinata a prolungarsi nel medio periodo. Sarà un inverno difficile, ai prezzi del gas stellari si aggiungerà il rischio della riduzione, o sospensione, delle forniture dalla Russia. Il gas che brucia ai confini della Finlandia è plastica, immagine delle contraddizioni e della posta in gioco. Senza nessuna cura del futuro e dei rischi ambientali, si inonda di CO2 il ghiaccio dell’Artico e si profila con nitidezza il vero obiettivo della Russia: trasformare la crisi energetica in crisi economica, alimentando in tal modo il malcontento nelle pubbliche opinioni. Il prezzo del gas è l’arma più efficace nell’ormai scoperta guerra economica tra Russia e Occidente. Per quanto si acceleri il passo verso le energie rinnovabili e la ricerca di alternative alle forniture russe, c’è bisogno di tempo.
Mancano soluzioni tecnologiche per lo stoccaggio dell’energia pulita e ci vorranno anni per la messa in funzione di mini-reattori nucleari come quelli previsti nel Regno Unito. Tutte le alternative richiedono tempo: non rivedremo presto l’energia a basso costo. Per quanto riguarda le scelte di investimento, il realismo impone di adottare per il futuro prossimo un atteggiamento di cautela. Le variabili in gioco sono numerose, molteplici gli esiti possibili: quando è più difficile riconoscere i segnali dai rumori, vince chi sbaglia meno, chi controlla il gioco e non prende rischi eccessivi. Nel breve termine sono elevati i rischi di recessione in Europa, la dipendenza dalle forniture di gas dalla Russia rischia di mettere in crisi il modello di crescita tedesco basato su manifattura, esportazioni ed energia a basso costo. Con margini di manovra della Banca centrale europea più limitati rispetto ai colleghi americani, l’euro resterà probabilmente debole, mentre il biglietto verde resterà forte grazie alla migliore performance dell’economia americana e all’atteggiamento aggressivo della Federal Reserve.