Scontri geopolitici e interessi economici: il ruolo dell’industria bellica nel conflitto Ucraina-Russia
Pare che il governo di Kiev abbia dichiarato ufficialmente che le forze ucraine avrebbero ucciso durante il conflitto ben 219.840 soldati russi. Se il dato fosse vero sarebbe davvero impressionante (in tutta la Seconda guerra mondiale l’Italia ebbe 291.000 militari caduti) ma non possiamo immaginare che sia fasullo, perché allora dovremmo implicitamente ammettere che da Kiev giungono notizie spesso non veritiere o completamente false, ma sempre acriticamente prese per buone dai nostri media. Quando ci si chiede, però, perché non si riescano ad avviare serie iniziative di pace bisognerebbe anche considerare gli interessi di chi – grazie al conflitto – sta facendo grandi profitti e che quindi non ha assolutamente intenzione di favorire seriamente degli accordi. Mentre Zelensky insiste a ribadire che “La guerra finirà solo con la vittoria dell’Ucraina e soltanto su queste basi si potrà parlare di trattive di pace” l’imponenza degli aiuti militari a Kiev e la continuità del periodo bellico – che ormai si protrae da oltre 16 mesi – ha infatti aperto la questione delle forniture, dei rimpiazzi e dell’integrazione del materiale bellico da mettere a sua disposizione.
La nuova tranche UE sarebbe intorno ai 5 MILIARDI di euro. A parte gli aiuti umanitari e comunque con ben pochi controlli su come vengano spesi i soldi in Ucraina, è una “torta” che vale appunto miliardi di euro e su cui hanno da tempo messo gli occhi tutte le aziende del settore armamenti sia in Europa che negli Stati Uniti, con il crescere di una “concorrenza” all’interno della NATO che ha evidenti risvolti politici, ma anche economici vista l’importanza che l’industria della difesa ha – e in prospettiva avrà sempre di più – per i diversi paesi componenti dell’Alleanza Atlantica. Fornire un’arma o un sistema “difensivo” significa anche dover poi predisporre le relative munizioni e parti di ricambio che – evidentemente – non possono poi essere agevolmente fornite da terzi e quindi una scelta d’arma diventa anche o soprattutto una scelta strategica. La lunghezza imprevista del conflitto, dopo aver in un primo tempo più o meno ripulito i magazzini, ha infatti progressivamente aperto il problema del rinnovo delle forniture, con relativi investimenti e contratti preventivi che ne giustifichino il costo.
Per questo l’Unione Europea paga e propone armi e piani per armare Kiev anche nella prospettiva di rendere l’industria delle armi europea sempre più efficiente e in grado di rispondere alle nuove esigenze manifestate con lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina. La stessa manovra è in atto però anche da parte del formidabile apparato dell’industria bellica USA (con la sua lobby delle armi capace di condizionare non solo l’opinione pubblica, ma perfino anche l’elezione dei presidenti) e su questo tema controverso per essere il “primo fornitore” si è quindi aperto un serrato dibattito anche in ambito Nato.
Dibattito (meglio sarebbe scrivere “guerra aperta”) anche tra gli stessi paesi europei appartenenti alla NATO, siano essi componenti o meno dell’UE. Per intanto c’è acuto il problema del munizionamento a Kiev visto che ogni giorno si consumano decine di migliaia di bombe, missili e proiettili. La Francia, per esempio, vuole garantirsi una buona parte di quanto necessario per fare arrivare subito le munizioni all’esercito ucraino ed è in prima fila per la scelta “europea”. Ma nella NATO – oltre alla Norvegia e alla Gran Bretagna che non fanno parte della UE – ci stanno soprattutto gli USA che appunto ci tengono a mantenere la loro “quota di mercato”. Una produzione di armi in Europa che prima della crisi ucraina era tecnologicamente avanzata ma quantitativamente ridotta, tanto che Washington sostiene come solo le forniture USA possano permettere rapidità nei tempi di consegna e che le richieste UE siano “protezionistiche”. La partita però non è solo quantitativa o qualitativa, ovvero su quante e quali munizioni inviare a Kiev, ma anche di matrice geopolitica per gli effetti economici positivi sui singoli paesi perché, se “tira” l’industria bellica (questa è una triste verità, che va magari poco pubblicizzata a livello di opinione pubblica, ma è di una sconcertante realtà) “tira” l’economia e tutto fa PIL.
È chiaro che per chi produce armi la pace è vista come l’ipotesi più negativa, magari da sostenere solo a parole e per “salvare la faccia” ma intanto continuando a produrre ed anzi aumentando la produzione ed isolando chi – come Papa Francesco – invano chiede almeno un cessate il fuoco. In questo quadro di opposti interessi l’informazione e la contro-informazione, le fake news e i depistaggi sono all’ordine del giorno e d’altronde basta ascoltare il bollettino di guerra quotidiano per capire come sia difficile cogliere segnali veri sull’andamento delle operazioni sul campo, vedi la controffensiva ucraina ipotizzata, promessa, annunciata, iniziata, fermata e ora che non si capisce se sia in corso o meno. Certamente il tempo corre e la gente riflette poco: per esempio ci era stato spiegato che le sanzioni avrebbero presto distrutto economicamente Putin che però, dopo 16 mesi di guerra, ha tenuto ancora nei giorni scorsi a San Pietroburgo un forum internazionale presenti buyers provenienti da 120 paesi del mondo che evidentemente non hanno alcuna intenzione di applicarle ed anzi hanno sostituito i venditori europei nei rapporti commerciali e di fornitura alla Russia (fornitori spesso rientrati dalla finestra con opportune triangolazioni commerciali, italiani compresi). È giusto insistere su questa strada o servono altre mosse politiche ed economiche? Pensate di essere un’azienda, che nonostante gli annunci da 16 mesi non raggiunge i suoi obiettivi: continuereste così o cerchereste altre soluzioni?