Il tema della diffusione dei discorsi d’odio in Italia e del suo contrasto è all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici ormai da qualche tempo. La grave crisi umanitaria che ha investito i paesi Europei e balcanici domina le cronache nazionali ed è in questo scenario, in cui spesso i giornali non restituiscono un’immagine corretta di quello che sta accadendo e più in generale del fenomeno migratorio a livello globale e nazionale, che si stanno moltiplicando le espressioni di incitamento all’odio razziale nei confronti di rifugiati, migranti, minoranze e non solo.
I forum dei giornali online, i commenti a margine degli articoli, le pagine Facebook delle testate nazionali e locali sono ormai i luoghi virtuali in cui dilagano i discorsi d’odio che prendono di mira in modo particolare i rifugiati e i cittadini di origine straniera e purtroppo si tratta di un fenomeno difficilmente monitorabile e controllabile, ed anche un tweet su sette contiene un discorso di incitamento all’odio. L’art. 3 della Costituzione Italiana afferma la pari dignità e l’uguaglianza davanti alla legge per tutti, senza distinzione di sesso, di ‘razza’, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Partendo da questo principio fondamentale sono state nel tempo approvate e modificate diverse leggi che costituiscono l’ossatura della normativa nazionale in materia di discriminazione razziale.
Molti concordano sulla necessità di interpretare in modo diverso il rapporto con il lettore della testata online rispetto ai lettori del cartaceo. Tuttavia in nome della libertà di espressione, si alternano atteggiamenti più restrittivi verso la partecipazione del lettore e per cui la prima responsabilità è proprio quella del giornalista e del modo in cui si scrive e si pubblica una notizia. Infatti oggigiorno si assiste sulle varie testate giornalistiche nazionali ed anche locali, in tv, radio e su internet quanto sia importante l’appartenenza della testata per cui si lavora. Da qui lo sconvolgimento od il coinvolgimento a livello anche politico; basti pensare alla vicenda del giovanissimo Rahmi e dei suoi 51 compagni salvati da morte certa, dove i giornali non solo hanno dimenticato il giovanetto italiano anche lui artefice del “salvamento”, ma hanno fatto sì che dovesse dire il padre del ragazzo marocchino: “Facciamo parte di questo Paese, lo sentiamo come nostro, ma non abbiamo potuto chiedere la cittadinanza ed è un prezzo che pagano anche i nostri figli. Non ho fatto mai domanda perché per un anno ho lasciato l’Italia e quindi la mia residenza non risulta continuativa: mi servirebbe un avvocato ma abbiamo sempre cercato di risparmiare”, quando poi in un video, dopo qualche giorno dal clamore degli avvenimenti, il padre del ragazzo spiega chiaramente come i giornalisti lo abbiamo “obbligato” a dire certe cose pur di mettere in difficoltà il Ministro dell’Interno, che secondo taluni sarebbe il primo razzista e fomentatore di odio dell’Italia.
Ecco allora che ci sono anche giornalisti che, ad esempio, credono che una riflessione su questo fenomeno debba nascere proprio entro la comunità professionale, sull’opportunità di pubblicare notizie che riportino frasi e affermazioni offensive e razziste. Quanto riscontrato quotidianamente è il miglior modo per prevenire manifestazioni d’odio e per far sì che si possano dare le informazioni nel modo più corretto possibile, facendo vedere i fatti nella loro obiettività, in modo che anche all’estero possano capire bene la realtà dei fatti e non come successo ultimamente ad Amburgo dove alcuni giornali tedeschi riportando articoli de “La Repubblica” abbiamo tratto in inganno un professore universitario, che nell’ambito di una conferenza, riportando quanto scritto dai giornali tedeschi, ha dato notizie sbagliate all’uditorio sui fatti accaduti in Italia. Ma a quanto pare, il dare notizie vere od attendibili in Italia non avviene più se non in sporadici casi, come il fatto oramai anche di usare un linguaggio diverso perché fa più “chic” l’essere esterofilo o il coniugare in maniera sbagliata o al femminile (per una parità di genere???) determinate parole che da sempre sono al maschile, Ministro, Prefetto, Questore, Ministero degli Interni e non dell’Interno ecc…ecc.., così come il chiamare oramai i Presidenti di Regione Governatori, quando in Italia l’unico Governatore è quello della Banca d’Italia, ma anche direttori di testate importanti della carta stampata o della Tv si sono adeguati a questo ritmo sbagliato, ma per loro il “perseverare non è diabolico”.
Bene ha fatto quando all’inizio del suo mandato il Presidente del Senato ad una giornalista che le chiedeva se la dovevano chiamare Presidenta o Presidentessa, ha risposto: “Io sono il Presidente del Senato della Repubblica Italiana”. Ma tutto ciò non ha fermato questo fatto di aver cambiato determinati appellativi voluto da chi, ahimè, nella precedente legislatura dal terzo scranno dello stato solo questo ha fatto e null’altro. Per cui la comunità dei lettori si seleziona da sé sulla base dello stile giornalistico della testata ed anche dell’appartenenza politica; ogni occasione è buona per colpire non più l’avversario ma colui che è considerato il nemico da abbattere anche fisicamente.
Da qui l’invito al vero giornalista affinché gli approfondimenti, le inchieste, i toni di voce non “gridati”, consentano una trattazione rispettosa di ciascuna questione in modo che il lettore tenderà a conformarsi. In ogni caso, ci sta una crescente attenzione che il mondo giornalistico sta rivolgendo a questi aspetti di prevenzione e la riflessione che negli ultimi tempi sta sorgendo entro la comunità professionale, rappresentano piccoli, ma evidenti segni di cambiamento: finalmente almeno una parte del mondo del giornalismo ha capito che non è giusto dare spazio al discorso dell’odio. Inoltre proviamo a chiederci se la comunità dei lettori abbia degli strumenti “autoprodotti” per la gestione del dibattito e sia in grado di produrre degli antidoti naturali allo sfogo dell’odio verso il “diverso”. Quindi ci si chiede: si ritornerà ad avere un vero giornalismo?