La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, “Giorno della Memoria”.
Per quanto riguarda la città di Amburgo si trova anche il nome di una strada a nome di: Sergio-de-Simone-Stieg, che ricorda il bambino Sergio De Simone, nato a Napoli, unico italiano tra i 20 bambini di varia nazionalità lì selezionati come cavie umane per esperimenti medici compiuti dal dottor Kurt Heissmeyer nel campo di concentramento di Neuengamme presso Amburgo.
Al termine dell’esperimento tutti i 20 bambini e i loro accompagnatori furono uccisi nei sotterranei della scuola amburghese di Bullenhuser Damm. Qui ricordiamo anche gli Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierte – IMI), che fu il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’Armistizio di Cassibile (8 settembre 1943).
Dopo il disarmo, soldati e ufficiali vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10 per cento accettò l’arruolamento. Gli altri, che con grande dignità per la propria persona anche a “disprezzo del pericolo e del sembrato mancato amore verso i propri cari – vennero considerati “prigionieri di guerra”. In seguito cambiarono status divenendo “internati militari” (per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra), ed infine, dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, “lavoratori civili”, in modo da essere sottoposti a lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa loro spettanti.
“Vedi quelle sentinelle dietro i reticolati? Sono loro i prigionieri di Hitler, non noi. Noi a Hitler e Mussolini diciamo no, anche quando ci vogliono prendere per fame”. (Sergente Cecco Baroni, internato in Germania, in Mario Rigoni Stern: Soldati italiani dopo il settembre 1943, FIAP, Roma 1988, pag. VI) Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierte – IMI) fu quindi il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’Armistizio.
Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi gli ufficiali vengono trucidati, come a Cefalonia). Furono classificati prima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi come internati militari (Imi), con decisione unilaterale accettata passivamente dalla RSI che li considera propri militari in attesa di impiego. Hitler non li riconobbe come prigionieri di guerra (KGF) e per poterli “schiavizzare” senza controlli, li classifica “internati militari” (IMI), categoria ignorata dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929.
Gli internati – rinchiusi nei lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari – a differenza dei prigionieri di guerra sono privi di tutele internazionali e sono obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ai lager, manovalanza, edili, sgombero macerie, ferrovieri, genieri, o al servizio diretto della Wehrmacht e della Luftwaffe, o presso imprenditori e contadini).
Ma l’amore ha e avrà sempre un limite che si chiama dignità; perché il rispetto per se stessi ha un prezzo molto alto, che non ammette sconti, con cui saziare un amore che non riempie, che ferisce e indebolisce. Talvolta non c’è altro rimedio che dimenticare i propri sentimenti per ricordarsi di quanto valiamo. Perché la dignità non va persa per nessuno, perché l’amore non si elemosina e non si supplica; è vero che non bisogna mai perdere un amore per orgoglio, ma nemmeno la dignità per amore, ed è ciò che fecero i nostri soldati.
Che ci crediamo o no, la dignità è quel filo fragile e delicato che mettiamo spesso in pericolo, che rischia di logorarsi fino a spezzare i legami delle nostri relazioni affettive. È molto frequente attraversare questa frontiera senza volerlo, fino a lasciarci portare ad un estremo tale in cui i nostri limiti morali si indeboliscono; pensiamo, infatti, che per amore valga la pena fare tutto e che ogni rinuncia sia piccola e giustificata. Ma non dobbiamo mai dimenticare il grande insegnamento di questi nostri connazionali e che cioè l’amore e la dignità sono due correnti in un oceano in tempesta in cui persino il marinaio più esperto può perdersi.