La Russia di Putin, i russi e la guerra in Ucraina – Conversazione con lo storico Alexey Tikhomirov
Alexey Tikhomirov è cittadino russo ed è uno storico. Da più di quindici anni non vive più in Russia, dove però ha parenti e amici. Ha anche la cittadinanza italiana e si sente cittadino europeo. Insegna Storia dell’Europa dell’Est all’università di Bielefeld. Con lui parliamo della Russia di Putin.
Che reazione ha avuto quando è cominciata la guerra in Ucraina?
Sono rimasto sconvolto e profondamente addolorato perché la Russia ha dato inizio a una guerra: e a una guerra contro un popolo fratello. Ho provato vergogna per la mancanza di empatia e umanità. Ho provato un senso di impotenza: il popolo ucraino viene attaccato, bombardato. Assistiamo alla distruzione di uno Stato autonomo e noi non riusciamo a impedirlo. Come europeo ho provato imbarazzo, perché l’Occidente ha fatto affari con l’élite politica russa e i suoi oligarchi, scendendo a pesanti compromessi a fini di mero profitto economico. Ho provato – e provo- paura di una escalation del conflitto, che potrebbe portarci a una terza guerra mondiale.
Per lei, da storico era prevedibile questo sviluppo aggressivo della politica estera di Putin?
Ne esistevano i germi: Putin non ha mai accettato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma dopo la seconda guerra mondiale, a parte la pericolosa crisi di Cuba nel 1962, ci siamo abituati a considerare la pace in Europa come un fatto scontato. Il dialogo fra Russia ed Europa si basava su interessi pratici, la fornitura di gas, una cooperazione costruita già negli anni ’70 con il cancelliere Willy Brandt e la sua politica della distensione a Est. Da allora l’ Unione Sovietica prima e la Russia poi, è stata considerata un fornitore affidabile di energia per l’Europa. Questa fiducia è andata distrutta il 24 febbraio 2022. Questo crollo di fiducia è gravido di conseguenze a livello politico, sociale e culturale.
Fino a poco tempo fa lei si recava regolarmente in Russia per studi e per visitare i suoi familiari. Che cambiamenti ci sono stati nella società?
Dal 2014 – dall’annessione della Crimea e dall’invasione del Donbass – notavo un cambiamento nell’informazione. Nei media si usava un linguaggio sempre più aggressivo, che presentava la Russia in pericolo, vittima di nemici esterni, sempre più militarizzata. Nei suoi ventidue anni di potere Putin ha creato un sistema politico autocratico, che oggi tende a sovrapporsi ad un sistema totalitario. Ha reso del tutto inconsistente la pluralità politica. In parlamento di fatto ha voce solo il partito di Putin; i tribunali sono fortemente soggetti al potere politico (basti pensare agli scandalosi processi contro Alexey Navalny). I media indipendenti, che non hanno mai avuto vita facile in Russia, sono ora messi a tacere (più recentemente la Novaja Gazeta, ma anche Medusa, Rain TV, Eco di Mosca). Non vi è libertà di opinione e espressione, i manifestanti vengono brutalmente arrestati e chi diffonde opinioni difformi da quelle del Cremlino (definite fake news) rischiano multe pesanti e fino a 15 anni di carcere in base alle nuove leggi militari sulla censura. Alla propaganda nei media si accompagna la diffusione di materiale propagandistico nelle scuole e nelle università, per “spiegare” l’”operazione militare” in corso (come sappiamo, chiamare guerra la guerra è proibito).
Si può dire che prima della guerra la Russia era un regime autoritario ora è una dittatura?
Prima c’erano delle isole di libertà. Alcune testate giornalistiche e trasmissioni televisive, pur con difficoltà e non senza pericolo, si mantenevano indipendenti. Fonti di informazione non allineate col potere erano accessibili in russo a chi volesse cercarle. Certo, manifestare apertamente il proprio dissenso, per strada, era pericoloso. Prima della guerra molti russi vivevano in maniera apolitica, che consentiva loro una certa normalità. La guerra ha eliminato questi spazi di neutralità e impone alla vita quotidiana una componente ideologica. La realtà politica mette di fronte al dilemma di stare o non stare dalla parte della guerra. Le settimane che stiamo vivendo sono decisive e temo che la propaganda riesca a trascinare i russi dalla parte di Putin. Per ottenere la legittimazione da parte della popolazione e il sostegno emotivo alla guerra, questa viene presentata come difesa e liberazione del Donbass e dal nazismo. Questa retorica ha forte presa sui russi, che coltivano il mito della vittoria sulla Germania nazista. Con lo slogan ‘za pobiedu’(Z), per la vittoria, che ha accompagnato la resistenza russa al nazifascismo, i russi vogliono profilarsi come vittime attaccate, destinate a vincere. Per i russi che ripudiano questa guerra fratricida, questo slogan suona ora come una bestemmia.
Intanto in Russia chi scende in piazza con cartelli che parlano contro la guerra o invocano la pace viene portato via da agenti in tenuta antisommossa. Marina Ovsjannikova, una giornalista televisiva, ha fatto irruzione qualche settimana durante il telegiornale della sera presentando un cartello contro la guerra e la propaganda di Putin. Le notizie trapelano nonostante la repressione. E poi ci sono le migliaia di soldati russi morti. Ma allora i russi non vedono la guerra o non la vogliono vedere?
Ho l’impressione che molti russi neghino la guerra perché non la vogliono vedere. Certo l’intelligentia ha preso immediatamente posizione e ha promosso e sottoscritto molte petizioni. Ho colleghi russi che hanno pianto per giorni interi. Molti di coloro che hanno preso posizione contro la guerra sono scappati, vogliono lasciare la Russia, sono minacciati. Ci sono fondate ragioni per temere una repressione interna in aprile. Senza dubbio molti russi sono scioccati e spaventati da quanto sta succedendo e si trovano in uno stato di dissonanza cognitiva, dove non sanno come devono e possono reagire. Non vogliono vedere che si tratta di una guerra perché fa loro male, perché hanno rapporti molto stretti con gli ucraini: sono molti i matrimoni misti, i rapporti di parentela e di amicizia fra russi e ucraini. Questa guerra porta il conflitto nella società, nelle famiglie, nei rapporti personali. La forte propaganda, che impedisce persino di chiamare la guerra con il proprio nome e narra di una missione di denazificazione e liberazione, fornisce ai russi un alibi. Li farà sentire nella condizione di dire – e forse di credere – di non aver saputo, di non aver visto e di non aver sentito niente; permetterà loro di affermare che la guerra è stata colpa solo di Putin e della sua cricca, dei suoi generali e del Consiglio di sicurezza russo.
Forse Putin riceverà sostegno anche perché la popolazione in Russia si sente sempre più isolata, ed economicamente danneggiata dalle sanzioni. Inoltre cresce fuori dalla Russia l’avversione per tutto ciò che è russo e questo unisce i russi.
Si tratta di un meccanismo che si mette in moto a partire dall’identificazione di un nemico esterno, che siano gli Usa, la Nato o tutto l’Occidente. Se in Europa c’è qualcosa che non va, la gente scende in strada a protestare. In Russia invece solidarizza con il capo, il “Führer” e non lo considera apertamente responsabile. Questo è un meccanismo di fiducia estorta: Putin e i suoi fedeli hanno agito in modo talmente spregiudicato nella società, da non lasciarle nessun’altra alternativa che seguire questa radicale, sciovinista e xenofoba persona. Ciò è una catastrofe per la società e lo stato russi. Putin ha costruito negli anni un sistema molto corrotto, che ha sistematicamente eroso e distrutto dall’interno l’apparato statale e le istituzioni attraverso lo sfruttamento di risorse materiali e umane. Non è inoltre da escludere che dopo la pessima gestione della pandemia, questa guerra, che secondo Putin avrebbe dovuto portare ad una vittoria veloce e sicura, sia stata concepita per consolidare il consenso sociale attorno a lui.
All’inizio della guerra ci sono stati casi eclatanti di artisti russi sollevati dai loro incarichi in Europa per non essersi distanziati sufficientemente da Putin (il soprano Anna Netrebko e il direttore della filarmonica Valery Gergiev a Monaco di Baviera, e quest’ultimo anche dal Teatro La Scala di Milano). Non le sembra che stiamo usando la stessa metodologia coercitiva di consenso di stile putiniano?
Non sono d’accordo. Secondo me non è difficile prendere una posizione chiara. Per chi vede le cose come stanno, mantiene la propria dignità e non è disposto a godere dei vantaggi della libertà occidentale servendo contemporaneamente un regime dittatoriale, prendere posizione è scontato. Fino a quando eravamo in pace le zone d’ombra erano possibili, anche per gli artisti. Forse hanno condiviso le idee imperialistiche russe, ma hanno riscosso il loro maggiore successo in Occidente, dove hanno espresso liberamente il proprio talento e vivevano volentieri. La loro fama è tale, che sarebbero accolti in tutto il mondo. Hanno scelto di non essere ambasciatori di pace.
Nella campagna di legittimazione della guerra in Ucraina c’è anche il capo della Chiesa ortodossa russa, Cirillo I, il patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Nella sua predica del 6 marzo scorso ha dato una giustificazione teologica alla guerra come strumento per fermare la cultura del gay parade, il peccato, nell’Ucraina e nell’Ovest. È un distanziamento ideologico contro l’Occidente che difende i diritti della comunità Lgbtq+. Che ruolo ha la Chiesa per la popolazione? Quanto è religiosa la società russa contemporanea?
In questo momento il patriarca dovrebbe forse guardare a papa Francesco e a come egli si posiziona di fronte alla guerra con il suo messaggio cristiano, pacifista e ragionevole. La posizione del patriarca Cirillo ha una lunga storia e tradizione alle spalle. Già nel diciannovesimo secolo una dottrina ideologica imperialistica, risalente allo zar Nicola I Romanov univa ortodossia, autocrazia e nazionalismo. In base a questa tradizione, la Chiesa deve servire ideologicamente lo stato e indottrinare la popolazione a fini politici. La legittimazione religiosa della guerra si inserisce in questo contesto. Va detto che il patriarca Cirillo è parte integrante del sistema corrotto di Putin. Non è un portatore di valori cristiani, è un funzionario corrotto che esegue gli ordini. Il suo ruolo in questa guerra è molto pericoloso, perché contribuisce a coinvolgere la popolazione emozionalmente. Nei piccoli centri le persone hanno poca formazione -culturale – , la tv di stato costituisce pressoché l’unica fonte di informazione – e non dispongono di strumenti concettuali per un’analisi critica. La Chiesa potrebbe argomentare cristianamente o anche solo umanamente: dobbiamo fermare la guerra in Ucraina perché porta distruzione, morte e sofferenza. Sarebbe umano. Mi rattrista che il patriarca e i suoi chierici non lo facciano.
Nella cittadina polacca di Przemysl, vicina al confine ucraino e che accoglie i rifugiati il leader della Lega Matteo Salvini è stato accolto dal sindaco mostrandogli la maglietta pro Putin che Salvini aveva indossato l’anno scorso. Salvini se n’è andato risentito. Il suo partito come quello di destra di Marine Le Pen in Francia sarebbero stati finanziati da Putin, e Salvini non ha mai nascosto la sua simpatia per il putinismo. Anche Berlusconi ha sempre vantato l’amicizia con Putin. Il “caso Salvini” la dice lunga su una classe politica, opportunista che cambia maglia all’occasione.
Con quella visita Salvini ha perso forse l’occasione più importante della sua carriera politica di scusarsi pubblicamente e di riposizionarsi. Chiunque può sbagliare, ognuno deve cercare di riparare i propri errori. Salvini non l’ha fatto e questo parla delle sue qualità politiche – e direi anche umane. Molti politici occidentali, soprattutto maschi hanno cooperato con Putin e sono stati in grande sintonia con lui, affascinati dalla sua immagine di mascolinità brutale e spietata, aggressiva, priva di compromessi. La Russia ha cooperato con molti esponenti delle destre europee, ai fini di indebolire l’Europa democratica. Molti politici europei hanno stretto legami con Putin, servendosi della democrazia e tradendone i principi.
Oggi ci diciamo di non aver riconosciuto la pericolosità di Putin e ciò, viene rimproverato anche alla ex cancelliera, Angela Merkel. Il socialdemocratico Sigmar Gabriel, aveva detto all’inizio dell’invasione russa in Ucraina di non riconoscere il Putin degli accordi di Minsk (2015), all’epoca era vice cancelliere.
Mi sembra un’affermazione naif per autoassolversi. Putin è stato molto coerente nelle sue azioni, anche simboliche. Che cercasse nel passato sovietico la legittimazione della sua Realpolitik era chiaro a chi volesse vederlo. Faccio qualche esempio: nel 2000 ha reso l’inno sovietico inno russo, per sottolineare la continuità fra la Russia e l’Urss; nel 2005 ha definito la caduta dell’Unione Sovietica “la più grande catastrofe geopolitica” del XX secolo; celebrazioni come il giorno della Vittoria, che simbolizza l’unione dei ‘popoli slavi’ (contro il nazifascismo e la fine della seconda guerra mondiale, il 9 maggio), sottolineano le pretese imperialistiche di Putin. È vero che negli ultimi mesi Putin ha accentuato i toni messianici circa la creazione di una “Grande Russia” e che si è sempre più isolato; ma dire che oggi abbiamo di fronte un altro Putin ha il sapore di un’autoassoluzione. Parte dell’élite politica occidentale ha flirtato con il Cremlino, anche se i germi dell’autoritarismo erano visibili e denunciati fin dagli anni della presa di potere putiniana. Invito a rileggere in proposito i libri di Anna Politowskaja – peraltro splendidamente tradotti in italiano – (La Russia di Putin, Adelphi, 2022, 2005, n.d.r.), che ha pagato con la morte la sua dignità e il suo amore per una Russia possibile.
Che cosa la preoccupa in relazione al tuo lavoro di storico dell’Est europeo?
Nella nostra università stiamo pensando a quali progetti realizzare per rimanere in contatto con i ricercatori e studiosi ucraini e russi e li coinvolgiamo nei i nostri progetti. Cerchiamo di pensare al futuro: non sappiamo quando, non sappiamo come, ma ci sarà un futuro anche dopo la guerra e dopo Putin. Quali tratti avrà questo futuro, dipende anche da noi, dallo spazio e dal sostegno che diamo alle voci del dissenso. Dobbiamo riflettere sul fatto che questa guerra minaccia anche tesori culturali, come gli archivi, che sono da sempre oggetto di conflitto. La memoria storico-culturale dell’Ucraina è in pericolo. Occorre preservare gli archivi dalla distruzione per salvaguardare la storia (anche) del popolo ucraino. Fra le intenzioni di Putin c’è sicuramente anche quella di avere il monopolio della storia dell’Ucraina, che intende come parte della Russia.