Ci troviamo in un momento estremamente delicato. Dopo quasi tre mesi di una crisi politica che era parsa infine trovare uno sbocco nel governo dei 5 stelle e della Lega, tutto è precipitato in una crisi istituzionale senza precedenti.
Siamo nella paradossale condizione per la quale, una salda maggioranza politica parlamentare (Lega-M5S, appunto) coi numeri per approvare qualunque legge in qualunque momento, invece di dar vita allo sbandierato “governo del cambiamento” innesca un infantile conflitto con la prima carica dello Stato, impiccandosi a un nome e contestando il diritto del Capo dello Stato di esercitare le proprie prerogative costituzionali. Viene in mente l’immortale Totò: „cca‘ niscune è fesso“.
Purtroppo qui c’è poco da ridere e toni e argomenti dell’attacco al Presidente Mattarella sono di una gravità inaudita.
Quello dell’Unione europea e monetaria non è un punto di programma elettorale o di governo e tantomeno può essere una delle questioni di cui si occupa un singolo ministro.
Siamo nel campo delle scelte strategiche, per molti versi irreversibili, se non a carissimo prezzo, che un Paese compie nella sua storia. L’Italia è impegnata da sempre e da protagonista con doveri, responsabilità e vincoli stringenti, per quanto modificabili, in questo disegno. E proprio perché l’Europa, i grandi cambiamenti democratici e le aggregazioni sovranazionali (con conseguente limitazione e cessione dei poteri nazionali) erano già nella mente dei padri costituenti, lo spirito che essi hanno saputo dare alla Costituzione è quello di essere perfettamente predisposta a integrarsi in un contesto europeo e mondiale di norme. Per questo, la nostra Carta consente esplicitamente, nella sua parte più importante, alle limitazioni di sovranità etc etc..
Di conseguenza, come è stato ben detto, il Presidente della Repubblica non è un notaio. Egli rappresenta l’unità della Nazione ed è l’interprete e custode del dettato Costituzionale. Pertanto le sue scelte non sono mere ratifiche di decisioni altrui, ma esercizio di responsabilità e garanzia degli interessi della Nazione. Ciò è vero anche nella nomina di un ministro.
Ed è questo che il Presidente Mattarella ha fatto non firmando la proposta di nomina di Savona, in linea con lo spirito costituzionale e l’integrazione in un sistema di norme, politico e finanziario internazionale. Tutto ciò lo mette a riparo da ogni accusa di „alto tradimento o per attentato alla Costituzione“, come da possibili impeachment.
Ieri lo ha spiegato bene, in una intervista al Corriere della sera, il costituzionalista Massimo Luciani, quando ha detto che „non ci sono i presupposti per la violazione dell’articolo 90 […] perché il Presidente Mattarella ha esercitato i suoi poteri costituzionali […]. Perché l’articolo 87 prevede atti controfirmati dal Capo dello Stato. È ovvio che debbano essere condivisi. Altra cosa è l’opportunità“.
Dunque Mattarella non è perseguibile secondo l’articolo 90 della Costituzione, ma può essere apprezzato o criticato per la scelta legittima di non aver nominato Savona.
Apprezzamento o critica che sono solo opinioni – legittime anch’esse – delle parti politiche. Tra queste parti politiche quelle di maggioranza (Lega e M5S che trattavano d’intesa con Mattarella), potevano cambiare il solo ministro dell’economia e far nascere il Governo (come è avvenuto in passato) realizzando il programma che avevano scritto. Invece hanno preferito rompere l’intesa costituzionale (tentando di scaricare la responsabilità sul Presidente) su un solo ministro e non far nascere il Governo: scelta legittima anche la loro, tanto quanto quella di Mattarella.
Da questa legittima mancanza di una intesa tra poteri (maggioranza politica parlamentare e Presidenza della Repubblica) nasce, dunque, il conflitto istituzionale tra Parlamento e Presidenza della Repubblica. Conflitto che ha portato il Presidente Mattarella, in linea con la collocazione politica e istituzionale italiana, con i principi costituzionali di integrazione alle norme europee e sovranazionali e in linea con i principi di terzietà del Presidente, a incaricare Carlo Cottarelli a formare un nuovo Governo con un profilo politicamente indipendente, ma politicamente europeista e in linea con i principi costituzionali.
Cottarelli e il suo Governo si presenteranno alle Camera e, se ottenessero la fiducia, ci porterebbero a votare a inizio 2019 (e a mio avviso dovrebbero votarlo tutte le forze parlamentari e fare la prossima legge di bilancio scongiurando innanzitutto l’aumento dell’IVA).
Se, come invece probabilmente accadrà, non troveranno una maggioranza e rimarranno in carica per i soli affari correnti e per gestire in modo politicamente imparziale le procedure fino al voto, ci dovranno traghettare a nuove elezioni in tempi strettissimi.
Il che significa un lasso di tempo compreso tra i 45 e i 70 giorni dallo scioglimento delle Camere.
Ma sicuramente ne serviranno almeno 60 per consentire anche la preparazione e lo svolgimento del voto degli italiani all’estero che ha tempi tecnici non inferiori a 60 giorni, appunto. Quindi il rischio è che si possa votare già ad agosto o inizi settembre: ipotesi a mio avviso estremamente rischiosa per la rappresentanza democratica, visto che la partecipazione potrebbe abbassarsi di molto a causa del periodo di vacanza. Per questo sarebbe auspicabile una intesa in Parlamento tra le varie forze politiche per sottoscrivere e votare una mozione che chieda al Presidente della Repubblica lo slittamento di almeno qualche settimana dello scioglimento delle Camere e quindi dell’indizione di nuove elezioni.
In questo contesto politico-istituzionale il Partito Democratico, che fin qui è stato volutamente (ed erroneamente aggiungo io) estraneo sia alle dinamiche politico-parlamentari per l’elezione dei presidenti delle Camere sia a quelle per la formazione del Governo, lasciando tutto nelle mani di M5S, Lega e Presidente della Repubblica, oggi si trova a dover percorrere un sentiero stretto e forse a vicolo cieco, poiché non è determinante ai fini della formazione di governi alternativi, compreso il Governo Cottarelli, non può che sostenere le prerogative e le ragioni del Presidente della Repubblica e si troverà in tempi stretti in una campagna elettorale nella quale rischia di rimanere schiacciato sotto il peso dell’accusa tanto demagogica quanto falsa degli antieuropeisti (Lega e M5S) di ergersi a unico baluardo a difesa dei tecnocrati di Bruxelles, contro gli interessi del popolo italiano.
Insomma, una campagna elettorale e mediatica che vedrà, semplicisticamente, una contrapposizione tra establishment e popolo e nella quale il Partito Democratico e il centrosinistra saranno percepiti come l’establishment, ovvero: nemici del popolo.
A noi, dunque, toccherà trovare una difficile via d’uscita a questa situazione. Anche per questo, probabilmente già nella prossima settimana, sarà convocata una Direzione nazionale del PD nella quale dovremo trovare una linea politica alternativa e avviare il percorso che ci porterà al voto con un nuovo progetto politico credibile capace di suscitare speranze fondate sulla verità. Capace di riportare a noi il voto di milioni di cittadini delusi dalle nostre politiche, ma anche spaventati dall’avventurismo dimostrato da Salvini e Di Maio in queste settimane. Nulla sarà scontato.