È prossimo alla pubblicazione il terzo documentario di Nat-Geo dedicato alla Germania, dopo la Gran Bretagna e il Belgio, nell’ambito del progetto “Italiani in Europa” realizzato in collaborazione con la Farnesina. Riccardo Venturi, fotocronista di fama internazionale, e Lorenzo Colantoni, giornalista e ricercatore specializzato in affari internazionali, hanno realizzato varie riprese a Francoforte, dove sono stati anche ospiti dell’Editore del “Corriere d’Italia” e della “Mezz’Ora Italiana”, lo storico programma radiofonico della Saarländische Rundfunk realizzato in collaborazione con il Consolato Generale d’Italia, prima a Saarbrücken poi a Francoforte. Venturi e Colantoni hanno scambiato i ruoli con Pasquale Marino, il redattore del programma, passando da intervistatori a intervistati il 12 gennaio scorso nello Studio P6 dell’ Hessischer Rundfunk di Francoforte.
Marino: Girava ormai da settimane la voce che due operatori di National Geographic sarebbero venuti nella nostra circoscrizione per un servizio che ci riguarda da vicino. Di cosa si tratta?
Colantoni: Detta così sembra quasi una minaccia. In realtà siamo molto più innocui di quello che sembra. Intanto, grazie di averci ricevuto al programma per raccontare quello che stiamo facendo. Noi siamo qui per il capitolo tedesco del progetto “italiani in Europa”. Quello che stiamo facendo, in sostanza, con National Geographic e con il Ministero degli Afari Esteri, è raccontare le comunità italiane nei Paesi europei più importanti. Cerchiamo di fare un discorso che colleghi l’inizio del Novecento con l’immigrazione dei giorni nostri per evitare un ragionamento a comparti stagni, che divida l’emigrazione operaia da quella più recente, di ricercatori, la cosiddetta “fuga di cervelli” e così via. È un progetto che abbiamo iniziato col Regno Unito. Un progetto che ha avuto un certo successo, nostro malgrado, con la Brexit, e ora siamo arrivati al capitolo tedesco e in particolare a Francoforte.
Marino: Il vostro è un documentario che ha due media portanti. Il Video e la fotografia. Riccardo Venturi è il fotografo di quest’operazione e va in giro con ben tre grosse macchine fotografiche…
Venturi: Beh come fotografo, portare una sola macchina fotografica non è mai sicuro. Una macchina è semplicemente di scorta e la terza ha una funzione particolare perché scatta immagini fisse in analogico, una macchina tedesca tra l’altro, ed è una panoramica con un formato molto particolare che uso soltanto per i progetti speciali. Non la uso sempre. È uno strumento che sembra quasi d’altri tempi, ma in realtà fa delle immagini bellissime che uso proprio per questi particolari progetti.
Marino: Ho visto le tue fotografie dei lavori già svolti e ho notato che tu spesso ritrai a tua volta vecchie fotografie, ponendole però in un contesto e con un sottofondo diverso. È questa un po’ la tua specialità?
Venturi: Io sono un fotografo a tutto tondo. Nasco come reporter di News. Ho fatto tantissimi servizi in tutto il mondo. Poi, secondo i progetti che si sviluppano, m’invento sempre delle cose nuove e in questo caso mi sembrava interessante, più che usare delle immagini storiche, semplicemente scansionarle e metterle nel nostro libro. Ho pensato che la fotografia, intesa come oggetto fotografico abbia una sua vita, un suo modo d’essere, una sua essenza, una sua struttura e cioè usata, toccata, pieghettata, magari scarabocchiata e quindi m’interessava catturare anche quest’aspetto della storia passata su un’immagine fotografica. Quello che faccio in questi casi, oltre naturalmente i ritratti o le panoramiche dei luoghi che andiamo a visitare, è trovare spesso delle foto anche private delle persone, delle famiglie e ricontestualizzarle. Le metto su un angolo di una cucina, le poggio su un prato, sulla ghiaia in giardino, le fotografo e cerco di dare così una nuova vita, una nuova storia.
Marino: da quanto tempo girate per questo nuovo reportage sulla collettività italiana in Germania?
Colantoni: In realtà siamo per questa tappa in giro solo da pochi giorni. Abbiamo però già fatto un altro viaggio. Abbiamo toccato Berlino e Wolfsburg per circa due settimane, che ci hanno permesso di coprire un raggio già abbastanza ampio di connazionali che va dagli ex operai a quelli attuali della Volkswagen e a tutta quella serie di artisti, giornalisti, ricercatori che sono approdati a Berlino dagli anni ottanta-novanta circa, ma soprattutto alla nuova emigrazione che molti chiamano la nuova mobilità.
Marino: Che cosa avete scoperto con i vostri servizi? Quali sono le peculiarità degli italiani in Gran Bretagna e in Belgio, dove avete già ultimato le vostre ricerche, che sono di prossima pubblicazione?
Colantoni: Sì, esatto. Noi presenteremo il Belgio il 13 febbraio alla Farnesina con il Direttore di National Geographic e con i rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri e, per quanto riguarda le peculiarità di ciascun Paese, la situazione è alquanto complessa. Quando scrissi il mio primo libro, mi ritrovai di fronte a una quantità di storie di un’eterogeneità incredibile. Noi arrivammo, mi ricordo, il sei agosto al Fringe di Edimburgo, dove incontrammo artisti pazzi e folli, acrobati, e dopo qualche giorno eravamo alle Orcadi, l’arcipelago più dimenticato della Scozia, a vedere i luoghi dove erano stati i soldati italiani prigionieri e dove erano nate tante piccole storie d’amore sotto il cielo scozzese. Diciamo che ogni Paese ha delle peculiarità. Poi ci sono dei trend macro, che però si declinano in maniera molto differente sia per quanto riguarda l’emigrazione italiana verso i singoli Paesi che per com’è fatto il Paese stesso. Cioè, per esempio, noi abbiamo avuto delle grosse ondate migratorie negli anni cinquanta, che sono diventate poi i minatori in Belgio o gli operai dell’industria automobilistica tedesca e, nel Regno Unito, delle fabbriche di mattoni. Mentre nel Regno Unito c’è stato un grosso buco, diciamo che questa emigrazione industriale non è riuscita a colmare, in sostanza l’emigrazione è ricominciata prima degli anni novanta ma soprattutto negli ultimi cinque sei anni e questa è molto eterogenea e va dagli artisti agli acrobati e teatranti, eccetera. Abbiamo una comunità molto solida, che riguarda gli anni cinquanta e anni sessanta, tanto in Belgio quanto in Germania e, allo stesso tempo poi, questa nuova mobilità molto presente a Londra, ma adesso anche a Berlino, soprattutto dopo la Brexit, che in un certo senso rappresenta l’altro volto di questa vecchia emigrazione perché costruisce sull’integrazione che a loro è riuscita, ma che purtroppo, spesso, è anche molto ignorante dei luoghi, dei momenti e delle persone che, in un certo senso hanno rappresentato i loro più importanti predecessori.
Marino: Con la tua macchina fotografica hai catturato anche i soliti stereotipi, la valigia di cartone, Il treno alla stazione, insomma hai trovato una “costante” nelle tue immagini?
Venturi: Con la mia fotografia cerco sempre di evitare gli stereotipi perché poi alla fine, mi sembra, siano vuoti di contenuto. Esistono delle caratteristiche, esistono dei trend, esistono delle cose che ritrovi e questo è innegabile. L’italiano che viene qua, comunque in nord-europa, e si lamenta del cibo, si lamenta del tempo del freddo, però dice che sta bene, è grato del lavoro che trova qui, insomma degli stereotipi sono un dato di fatto. Abbiamo una cultura che s’incontra con un’altra…
Marino: … o che si scontra…
Venturi: Sì, in alcuni casi si scontra. Io, con Lorenzo, cerco di fare questo lavoro e di sfuggire, di toccare questi stereotipi, ma anche di sfuggire da questi cercando di raccontare storie da un’altra prospettiva. Quindi, abbiamo incontrato anche tante storie di successo, d’italiani che in vari settori hanno ricevuto dei grossi riconoscimenti. Quello che cerchiamo di fare noi, è di individuare, nei settori tipici dei Paesi che stiamo visitando, degli italiani che, in qualche modo, si siano distinti. Al tempo stesso, raccontiamo la storia degli italiani nel Paese in cui siamo, ma anche la storia del Paese che vogliamo raccontare.
Marino: Torniamo alla tua attività di fotografo, di fotoreporter. La fotografia è indubbiamente arte. Con l’avvento della fotografia digitale, questa si è spostata di più verso il mezzo “tecnologico” più lontano da quello artistico? Insomma, i sedicenni in ascolto forse non sanno nemmeno cosa sia il “rullino fotografico” mentre io non riesco a fare una fotografia decente con il telefonino…
Venturi: Allora: sicuramente la fotografia lo è, sia di tipo digitale sia di tipo analogico, con il rullino come lo chiami tu, e come effettivamente si chiama. Non cambia molto e quello è soltanto un mezzo tecnico. Quindi, questa trasformazione c’è. Però la fotografia resta uno strumento estremamente “demografico”. Cioè, anche quando nasce, la fotografia diventa, a parte proprio i primi inizi, subito uno strumento popolare. Negli anni cinquanta, sessanta esplode proprio. L’hanno tutti in casa. Le vecchie polaroid, chiunque possiede una macchina fotografica, la macchina fotografica semplice da usare ecc. Non è un mezzo complesso, anche per fare arte, come la pittura e la scultura. Questa semplicità lo rende un mezzo veramente popolare. E il digitale non ha escluso, anzi, la possibilità di fare arte in questo senso. Diciamo che c’è una tale mole, un fiume d’immagini oggi, che quello che rimane difficile è cercare di fermare un momento in mezzo a questo fiume d’immagini in continua evoluzione e, quindi, se c’è qualcosa di buono, c’è il rischio di perderlo. Ecco, e questo succede anche con i ricordi. Mentre un tempo, avendo poche immagini nei nostri album di famiglia, quelle foto diventavano un po’ icone. Oggi quanti di noi si mettono a guardare negli Hard disk quelle migliaia di foto scattate con il telefonino? Diventa come non averle quasi fatte e questo è un po’ il rischio.
Marino. Torniamo a Lorenzo Colantoni. Faccio radio da oltre trent’anni e ricordo di varie equipe televisive che ci venivano a trovare mentre giravano filmati in Germania. E ricordo anche che erano sempre in tre o quattro persone, con un cameraman, un fonico un addetto alle luci ecc. Oggi per voi il lavoro è diventato meno pesante e ricavate il massimo con uno sforzo minimo?
Colantoni: Dire che lo sforzo non è minimo, La differenza, direi, è che ora è possibile, tra virgolette, per una sorta di one-man Band…
Marino:… parlavo di sforzo fisico
Colantoni: Quello sicuramente. Lo sforzo fisico è ridotto al minimo perché si tratta di macchine leggere. Parlavo di one-man band perché, un tempo, la fotografia si poteva fare fondamentalmente da soli, è stato così ed è rimasto così, per i video c’era bisogno di una serie di persone, a meno che non si facesse un tipo di televisione stile news. Fare un documentario, per come lo ricordiamo noi fino a vent’anni fa, richiedeva comunque l’intervento di tre, quattro cinque persone. Non che adesso per fare un documentario simile, destinato esclusivamente al video, non ci sia bisogno di un team con almeno due operatori, un regista un fonico, ecc. Questo resta necessario. Si possono fare, però, una serie di contenuti che sono professionali, sono fruibili e soprattutto hanno una qualità che, in un certo senso potremmo dire “cinematografica”, da soli. E questo, soprattutto negli ultimi due tre anni, è nato con l’avvento delle cosiddette Mirrorless che sono un ponte tra le reflex digitali e l’ambito della ripresa digitale più ampio, che ha una bella profondità di campo e che quindi dà questo respiro più ampio, un respiro più cinematografico, con colori molto belli, con una dimensione minima. Questo rappresenta un vantaggio sotto tanti punti di vista. Per primo, io posso fare delle riprese in un certo senso quasi casuali, “tiro fuori, prendo e riprendo” e garantisce anche una certa stabilità. Io ricordo che quando ho cominciato a fare questo mestiere si usavano i Flycam, apparecchiature che, per montarle, occorrevano quattro cinque minuti, e andare in giro con questi oggetti che pesavano cinque sei chili, dopo già dieci minuti ti smontava letteralmente il braccio. Adesso basta poco per fare queste riprese. Questo ci permette di raccontare una storia a tutto tondo. Nel prodotto che offriamo, chiamiamolo così, Riccardo ed io -e non solo in questo progetto ma in tanti altri- diciamo che l’esigenza sempre più costante è quella di avere differenti componenti tutte insieme. Cioè c’è bisogno sia della fotografia, nel senso classico, c’è bisogno del testo che include i dati della ricerca, ma anche storie personali, e poi c’è bisogno della parte multimediale poiché è bello avere un libro, è bello poterlo leggere, ma avere un documentario multimediale che sia raggiungibile da chiunque, sia negli Stati Uniti sia in Germania e altrove è, in un certo senso, una richiesta, cui bisogna fare sempre fronte adesso.
Marino: Io chiudo qui con un’ultima domanda a bruciapelo. Per me la Germania è…
Colantoni: … un bel posto!
Venturi: La Germania per me è un posto che conosco abbastanza bene ma che ancora può rivelarci delle grosse soprese!
L’intervista è fino al 10 marzo in streaming internet su : https://www.sr-mediathek.de/index.php?seite=7&id=47040