Era il 25 marzo 1911, un giorno qualsiasi, a New York. Nella Triangle Shirtwaist, una delle tante “fabbriche del sudore” della metropoli americana agli inizi del 20mo secolo, dove le condizioni di lavoro erano a dir poco pessime per l’eccessivo numero di ore lavorative, le cattive condizioni igieniche e le inesistenti misure di sicurezza, lavoravano oltre 500 persone, tra le quali anche Sarah Maltese, un’immigrata siciliana.
Era il 25 marzo 1911, quando alle ore 16:30 un incendio, sviluppatosi ai piani alti della Triangle Shirtwaist, causò la morte di 146 persone, praticamente quasi un quarto dei dipendenti dell’azienda. Il terribile incendio è tutt’oggi considerato uno dei peggiori disastri negli Stati Uniti dal periodo della rivoluzione industriale: un disastro preannunciato, visto che i proprietari della fabbrica, Isaac Harris e Max Blanck, avevano predisposto la chiusura delle porte della loro impresa, per poter controllare meglio i dipendenti, sospettati di commettere furti all’interno della fabbrica. L’incendio, probabilmente causato da una sigaretta accesa, e facilmente alimentato dagli scarti di tessuto e dalla polvere, si poteva, dunque, evitare: difatti, nonostante i suggerimenti della compagnia di assicurazioni, i proprietari non avevano istituito dei programmi di prevenzione e di esercitazioni antincendio. Il palazzo, inoltre, non era dotato di idranti. Il fuoco colse i dipendenti quindi impreparati. Alcuni si salvarono fuggendo sugli ascensori – che ben presto si bloccarono; altri si rifugiarono sul tetto del palazzo vicino oppure lungo le scale che furono quasi subito avvolte dalle fiamme. Altri si gettarono dalle finestre per salvarsi, ma era un invano tentativo di sfuggire alla trappola che i loro stessi datori di lavoro avevano – senza rendersi conto della gravità – architettato.
Delle 146 persone che morirono, 129 erano donne. Il loro sacrificio non fu vano in quanto in seguito negli Stati Uniti furono adottate riforme per migliorare le condizioni di lavoro e di sicurezza. I sindacati dell’industria dell’abbigliamento presero vigore e rafforzarono la loro presenza sui tavoli dei negoziati in tutte le materie riguardanti il lavoro. E anche la città di New York dovette prendere misure rigorose per riformare le procedure di sicurezza. Il giorno delle donne, l’8 marzo, è anche una ricorrenza a questo terribile disastro.
Ma cosa ci insegna, in fondo, questa vicenda? Che, innanzitutto, il lavoro non è un qualcosa, un oggetto oppure una merce che appartiene al datore di lavoro. Il lavoro va ben oltre: è un oggetto di diritto che obbliga anche a chi lo offre di fare in modo di creare tutte le condizioni necessarie affinché la prestazione lavorativa possa essere svolta senza alcun pericolo per il lavoratore. Al dipendente, dunque, spettano condizioni di lavoro tali che garantiscono la sua integrità. Questo, oramai, è un principio fondamentale del diritto del lavoro, un principio che ad esempio troviamo nell’art. 618 del codice civile tedesco. La tutela fondamentale del diritto alla salute del lavoratore è contenuta anche negli articoli 32 e 41 della Costituzione italiana: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. È, inoltre, contenuta anche nell’art. 2087 del codice civile italiano: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Insomma: un datore di lavoro, quando prende una decisione, non può mai ignorare la salute dei propri dipendenti, ma deve piuttosto garantirne l’essenza. Il lavoro, se considerato nel suo valore complessivo, è anche di chi lo svolge.
A Serafino Maltese, padre di Sarah, dissero che la figlia Sarah si fosse salvata. In realtà, però, si trattò di un errore di traduzione. La figlia non si era salvata, ma era “saltata”, (“jumped”), saltata da una finestra della fabbrica. Lui, quella sera del 25 marzo la attese, ma Sarah non tornò mai più a casa.
Sarah aveva soli 13 anni e guadagnava 12 dollari a settimana.