La ministra Marianna Madia (foto) ha copiato o no gran parte della sua tesi di dottorato? E se si accertasse che ha davvero copiato, dovrebbe rassegnare le dimissioni o restare al suo posto? La questione è stata sollevata dai giornalisti del Fatto quotidiano i quali hanno sottoposto la dissertazione della ministra (con cui ha conseguito nel 2008 il dottorato alla Scuola IMT Alti studi di Lucca) al vaglio di alcuni software antiplagio di cui sono ormai dotate tutte le università. Risultato: paragrafi interi dell’opera risulterebbe ricopiati papale papale da altri studi senza virgolettato e senza citare la fonte di provenienza.
L’aspetto più curioso e preoccupante della vicenda è che l’accusa mossa dal Fatto quotidiano è stata per giorni sottaciuta dai principali organi di stampa e dalle tv. Poi se n’è cominciato a parlare, ma ribaltando i termini della denuncia: i veri colpevoli sarebbero i giornalisti del Fatto che si sono messi in testa di buttare fango su una giovane ministra per screditare la sua persona e il governo di cui fa parte. Si sono sentite le difese più bizzarre, del tipo «il valore di un ministro non dipende dalla qualità della sua tesi di laurea o di dottorato», «Il plagio concerne solo una parte del lavoro e dunque è irrilevante», fino al classico «che male c’è a scopiazzare, lo fanno tutti fin dalle elementari» e la ministra sarebbe stata solo sfortunata a farsi beccare con le dita nella marmellata.
Ancor più sconcertante la difesa del prof. Pietro Pietrini, neuroscienziato e direttore dell’Imt di Lucca, l’istituto dove si è addottorata Marianna Madia. Secondo il docente «le accuse non tolgono nulla alla grande qualità di un lavoro finito su due riviste internazionali». La dottoranda Madia avrebbe commesso semplicemente «un’ingenuità», tanto più che all’epoca (nove anni orsono, mica secoli!), «era prassi comune procedere in quel modo dato che in Italia non c’erano software antiplagio e nemmeno questa ossessione per le citazioni». Il che vorrebbe dire che è normale e legittimo copiare fintanto che non ci sono strumenti per essere scoperti, alla faccia dell’etica della ricerca scientifica!
Ma addirittura esilarante è l’autodifesa della ministra autrice di una recente riforma della Pubblica Amministrazione che esalta la meritocrazia e si propone di licenziare in tronco i cosiddetti “furbetti del cartellino”, quelli che timbrano e poi se ne vanno a spasso durante l’orario di lavoro. «Mi mettono in croce per avere omesso qualche virgoletta» si lamenta Madia rivendicando «la serietà e la correttezza» del suo curriculum accademico e preannunciando azioni legali contro quei maliziosi farabutti del Fatto che ne infangano il prestigio. «Ogni fonte utilizzata è stata correttamente citata in bibliografia», asserisce la ministra, che però dimostra così di non sapere che nei lavori scientifici un conto è la bibliografia finale e un altro l’obbligo di indicare la fonte da cui si cita nel corso del testo.
Chi scrive queste righe non ha nessuna ragione per essere prevenuto nei confronti di Marianna Madia. Oddio, la sua fulminante carriera politica desta qualche interrogativo mai chiarito. Com’è che l’allora ventottenne fanciulla, senza avere mai svolto la minima esperienza in campo politico, fu prescelta da Veltroni come capolista della regione Lazio nelle file del neonato Partito democratico? Com’è che divenne nel 2014 ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del governo Renzi? Non è dato sapere, ma del resto sono passati i tempi in cui la carriera da parlamentare e da ministro passava attraverso un lungo viatico fatto di amministrazione locale e di ruoli di partito. Oggi sono i leader massimi a decidere chi deve diventare ministro e chi no, e di certo non contano le competenze e il curriculum accademico, né tantomeno l’originalità della tesi di dottorato. La bella presenza e la gioventù sono diventati i criteri discriminanti per l’ascesa politica, soprattutto se si tratta di donne. Aveva iniziato Berlusconi, ma certamente Veltroni e Renzi non sono stati da meno.
Riflessione finale:
in un Paese saggio, o appena normale, in un caso del genere la dissertazione dottorale della ministra sarebbe affidata ad un comitato di esperti accademici per accertare oltre ogni ragionevole dubbio se l’opera è frutto di plagio o no. E nel caso risultasse che la tesi è copiata – in toto o in parte –, allora non ci potrebbe essere altra via che quella della revoca del titolo accademico e dimissioni dalla carica. In un Paese saggio, o almeno normale, il politico che si erge a custode dell’efficienza e della meritocrazia dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto e dovrebbe volere che si faccia immediatamente chiarezza su un’accusa che lo riguarda. E invece in Italia si solleva un polverone di interventi pro e contra, si firmano appelli, si discetta per ore nei talk show, e alla fine non succede nulla. Ciascuno rimane al suo posto e i colleghi del Fatto finiscono sotto accusa. Questo è il gap che corre tra Italia e Germania. Anche in terra tedesca i ministri accusati di avere copiato la tesi dottorale hanno tentato sulle prime di difendersi. Ma presto si sono dovuti arrendere dietro la pressione dell’opinione pubblica. È per questo che i vari von Guttenberg e Schavan hanno dovuto troncare la carriera di ministri e di politici. È un modo ben diverso di intendere le cariche politiche come servizio pubblico. È un gap di civiltà che inesorabilmente segna un solco profondo tra i due paesi.