Come è cambiata l’Italia in questi primi mesi del Governo Draghi
Sono ormai passati i famosi “cento giorni” dall’avvio del governo Draghi ed è giusto fare finalmente un primo bilancio. Cento giorni sarebbero un periodo di tempo sufficiente per tracciare il bilancio dell’esordio di un governo guidato da chiunque, non in questo caso. Impeccabile “civil servant” abituato alla mediazione, stimato e conosciuto nelle cancellerie continentali e nelle istituzioni europee, Mario Draghi giurava nelle mani del presidente della Repubblica il giorno di San Valentino, poco più di quattro mesi fa. Per l’occasione, l’emergenza sanitaria scompaginava il cerimoniale e imponeva ai ministri la distanza di sicurezza di un metro di fronte ai flash dei teleobiettivi. Da allora, sembra cambiato tutto.
Dopo alcune incertezze, il piano d’immunizzazione ha conosciuto un’intensa accelerazione: è bastato semplificare, accentrare, cambiare qualche nome. I nomi, appunto. Il metodo dello spoil system è stato applicato in rapida successione a diversi ruoli apicali: fuori tutto il comitato tecnico-scientifico, Borrelli, Arcuri, Vecchione, Parisi; dentro Curcio, Figliuolo, Belloni e più poteri a Nicastro. Il piano per accedere al Recovery Fund riveduto e corretto, e soprattutto ampliato nella parte che riguarda le riforme da approvare, è stato presentato. Il 50,6% degli italiani – stando ai media – approva l’operato del governo, anche se la stima del premier appare maggiore – 60% – e proprio questa sensazione è un primo punto di partenza.
Personalmente apprezzo Draghi: dimostra di essere persona di valore, di avere capacità di sintesi e mediazione e – soprattutto – non dà una impressione narcisistica di spasmodica ricerca dell’auto-promozione come era diventata una caratteristica dell’ex presidente del Consiglio.
Draghi è sobrio, si è auto-cancellato l’emolumento, parla il meno possibile dando l’impressione che parlerebbe anche di meno tenendo un profilo schivo, come tutti i banchieri di razza che non vogliono mai apparire, ma stando davanti ai numeri sanno lavorare in profondità.
A Draghi era stato chiesto di muoversi su due priorità: vaccinazioni e preparazione del Recovery Plan per avere i soldi europei.
Sul primo punto ha il merito di aver stroncato il malaffare che spadroneggiava dietro ad Arcuri e con la scelta “tecnica” del generale Figliuolo ha fatto ripartire una campagna vaccinale che appariva scoordinata. Una realtà di numeri meno brillante di come hanno annunciato troppe fanfare, ma non è colpa di Draghi se l’Europa si è persa in contratti-capestro e connivenze evidenti con i big dei farmaci.
Proprio verso l’Europa Draghi dimostra di avere esperienza e credibilità: mentre si appanna la stella della Merkel in via di pensionamento è proprio Draghi a crescere in visibilità nella UE tanto da ottenere per lo meno attenzione per i guai italiani, ben ricordando di avere alle spalle una credibilità-paese prossima allo zero.
Al netto delle sirene non disinteressate l’Italia si è così presentata con Recovery Plan più coerente e serio di prima ed attende con ansia i primi spiccioli, anche se tra il dire e il fare (ovvero di saper poi attuare i progetti) ne passa di acqua sotto i ponti. Draghi appare impermeabile alle polemiche, usa buon senso, tira diritto anche perché si ritrova con una maggioranza numericamente enorme ma divisa all’interno.
Godendo di buona stampa – avendo coinvolto quasi tutti nel coro – alla fine il punto debole di Draghi è proprio la sua maggioranza, un caleidoscopio che sta insieme per necessità e non per convinzione, barcamenandosi su molti temi dove tutti vogliono avere la propria visibilità mettendo le dita negli occhi al vicino. Fino ad oggi, comunque, sono state rose e fiori: ma finita la luna di miele le difficoltà cominciano. Vengono e verranno al pettine infatti tutti i nodi rimandati da Conte, nascosti da Renzi, dimenticati da Letta e Gentiloni e aggravati da una pandemia che ha fermato quasi tutto. Ci sono infinite materie per litigare in maggioranza: il blocco dei licenziamenti, un’economia che non “tira” e va fatta ripartire, una situazione sociale difficile, mance demagogiche diventate perpetue come i vari redditi di cittadinanza, l’Alitalia da far ri-decollare (?), gli sbarchi che crescono e – soprattutto – la cabina di regia da far funzionare in chiave europea dove le pressioni, le lobby, le istanze categoriali saranno fortissime.
Alla fine ad oggi per Draghi ne esce una pagella del primo quadrimestre con sostanziali sufficienze, qualche “buono” in materie orali, ma con la necessità di un giudizio più approfondito quando cominceranno ad arrivare i soldi di Bruxelles da mettere veramente a frutto. Draghi l’alieno, Draghi l’uomo abituato a gestire il potere prima ancora che a parlare di potere, Draghi che si è dovuto abituare a prerogative più rigide dopo gli anni da dominatore alla Bce ha avviato la spinta sistemica, ma nei prossimi anni il futuro del Recovery e la programmazione della rinascita sarà compito dei partiti politici, che non possono scomparire definitivamente: la logica dell’emergenza non può durare all’infinito, ma il cambiamento in atto è reale. E richiederà un’attenzione profonda al tema della classe dirigente adatta per il Paese negli anni a venire. Però – ora – sullo sfondo si intravedono i nuvoloni neri che crescono in una maggioranza pronta a sgambettarsi a vicenda e dove i troppi galli nel pollaio rischiano di rallentare il lavoro generale.