Riecco il “muro di gomma” (parte 2)
Giulio Andreotti, che per esser stato a lungo Ministro della Difesa se ne intendeva, ha sentenziato: “In Italia l’unica guerra che i generali sanno vincere è contro gli altri generali”. Ma aveva sottovalutato un’altra loro capacità altamente sviluppata e raffinatissima, consistente nel depistare, occultare, innalzare cortine fumogene attorno a fatti scomodi. E codesta loro “capacità militare” ha già brillato vivamente nel caso del disastro aereo di Ustica, riempiendo del suo fulgore le aule dei tribunali, come rappresentato nel film di Marco Risi “Il muro di gomma” che invitiamo tutti a rivedere.
Però se le vittime di Ustica sono state 81, stando alle cifre dell’ANVUI (Associazione Nazionale delle Vittime dell’Uranio Impoverito), fino ad oggi si contano più di 360 morti e di 7.500 malati gravi fra i soldati italiani esposti alle armi all’uranio impoverito. Sul suo sito facebook sono toccanti le foto delle loro giovani vite stroncate da un nemico ben più insidioso e imprevedibile di quello che si aspettavano, e contro cui non erano stati dotati di difese.
Quante volte nella storia passata i soldati italiani sono stati mandati allo sbaraglio dai loro comandanti con preparazione ed equipaggiamento meno che insufficiente?
Il problema è che questi casi clinici di leucemie, cancri e linfomi vari, si collegano ad eventi sparsi nel tempo e nel luogo, e difficilmente testimoniabili, come l’inalazione d’un aerosol radioattivo. Non sono come le vittime di Ustica, che erano tutte perfettamente ricollegabili ad un preciso evento. Semmai le vittime testimoniate dall’ANVUI si possono paragonare a quelle del fumo, che Dio sa quanto hanno faticato per farsi riconoscere un indennizzo dalle multinazionali del tabacco. Ma in quel caso si trattava d’imprese capitalistiche senza scrupoli, dedite soltanto all’aumento dei profitti. Che allo stesso modo potesse comportarsi pure un organo dello Stato Italiano, che giustifica la sua esistenza sulla pretesa di rappresentare il Popolo Italiano, questo non c’era da aspettarselo. O forse sì, dopo il successo dello slogan “Azienda Italia? Sembra proprio che lo Stato Italiano, anziché proteggere i propri cittadini, pensi a proteggere sé stesso dai suoi cittadini. Dapprima il Ministero della Difesa tentò di negare che nella cosiddetta “missione di pace” nei Balcani fossero state usate armi all’uranio impoverito; forse perché sotto quell’etichetta ci si immagina normalmente un’assistenza alle popolazioni bisognose, e non lo sganciamento sulle loro teste di 80 tonnellate di uranio. Il bello è che i bombardieri decollavano dalla base di Aviano, dove si teneva una registrazione precisa delle munizioni usate. Essa pure, forse, era irreperibile: come i tracciati radar di Ustica.
Mentre che il Ministero della Difesa italiano ricorre alle argomentazioni più capziose pur di dissociare l’uranio impoverito dalle malattie dei suoi soldati (che saranno forse attribuibili a generici “cedimenti strutturali” dei loro giovani e robusti corpi?), le Forze Armate U.S.A. hanno realizzato due filmati ufficiali intitolati rispettivamente “Depleted Uranium: Hazard awareness e Contamined and damaged equipement management operation”, in cui si afferma esattamente quello che lui si ostina a negare.
Anche le Nazioni Unite ne hanno ufficialmente riconosciuto la pericolosità in una risoluzione approvata il 29 agosto 1996 in cui si esortano gli stati membri a “guidare le loro politiche nazionali in base alla necessità di mettere a freno alla produzione e alla diffusione di armi per la distruzione di massa con effetti indiscriminati, in particolare le armi nucleari, armi chimiche, bombe fuel-air, napalm, bombe a grappolo, armi biologiche ed armi a uranio impoverito”.
Ben quattro commissioni parlamentari d’inchiesta su questo tema sono state varate per far luce su questa ingloriosa faccenda, che sta facendo tante vittime come una battaglia perduta.
Secondo l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, legale di molti militari colpiti, “Sono già 130 le sentenze che riconoscono il nesso di casualità”. Quindi non è rimasto altro alle vittime che rivolgersi al tribunale per avere il riconoscimento quali vittime del dovere e il risarcimento dei danni.
La prima vittoria giuridica è stata quella del 3 novembre 2012, quando il Tribunale Civile di Roma stabilì con una sentenza che ad uccidere Andrea Antonaci (che aveva prestato servizio in Bosnia ed era morto per un linfoma di Hodgkin) era stato l’uranio impoverito, e condannò il Ministero della Difesa a pagare ai suoi familiari quasi un milione di euro. Nel 2015 una sentenza della Corte d’Appello di Roma a carico del Ministero della Difesa decreta “con inequivocabile certezza” il nesso casuale fra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgenza di malattie tumorali.
Perché il Ministero della Difesa, nonostante l’evidenza delle prove, rifiuta ai suoi soldati i dovuti riconoscimenti di legge, obbligandoli a passare ogni volta per i corridoi interminabili dei tribunali? Non sarebbe meglio per lui pagare per mettere tutto a tacere?
Nel volume “Uranio impoverito. La verità” (ISBN 8884250366) l’ammiraglio Franco Accame elenca un gran numero di giovani soldati che, appena ammalati, sono stati congedati e abbandonati a sé stessi. Ecco la dichiarazione lapidaria rilasciata da uno di loro: “L’Esercito Italiano mi ha lasciato solo, malato e senza lavoro. Mi hanno abbandonato”.
Certo, questa faccenda con l’uranio impoverito resterà fra le pagine più ingloriose dell’Esercito Italiano, che pure ne annovera di tante.
Forse non tutti sanno che…
Nel romantico 1897 il principe francese Henri d’Orléans, invitato a una battuta di caccia dall’imperatore d’Etiopia Menelik II, ebbe occasione di conoscere alla sua corte il generale italiano Matteo Francesco Albertone, che vi era tenuto come prigioniero di riguardo, in attesa che il governo italiano si decidesse a pagarne il riscatto (con i soldi del pubblico erario). Albertone era stato catturato l’anno prima, durante la battaglia di Adua, che secondo il parere unanime degli storici fu la sconfitta più catastrofica ed umiliante di tutta la storia del colonialismo in Africa, ed egli viene considerato uno dei principali colpevoli dell’ecatombe: si è calcolato che degli 11mila soldati italiani del corpo di spedizione, circa 6mila caddero in combattimento, altri 3mila rimasero feriti, e solo 1.500 riuscirono a tornare in patria. Anche sulla causa dell’ecatombe gli storici non hanno dubbi: fu la stupidità e l’arroganza dei comandanti italiani. „Sangue di soldati e ufficiali italiani che si erano battuti bene, ma in una situazione disperata nella quale erano stati cacciati dai loro capi incompetenti“ commenta lo storico Marco Patricelli nel suo volume „L’Italia delle sconfitte“ (ISBN 978-88-581-2621-9).
Il principe d’Orléans raccontò d’aver assistito ad una scena incredibile durante un banchetto ufficiale in cui il Negus e l’imperatrice Taitù fecero un gran brindisi solenne con tutti i loro ospiti alla propria vittoria ad Adua. Egli vide con i propri occhi il generale Albertone sollevare il calice di champagne in onore della propria sconfitta. Sbigottito, gliene chiese la ragione, ed Albertone rispose con noncuranza che l’aveva fatto „per cortesia“; ma per il principe francese questa era vigliaccheria, altro che cortesia, perché egli, con quel gesto, implicitamente considerava come propri nemici i soldati italiani che erano morti anche per colpa sua. Nessun generale francese avrebbe mai brindato alla sconfitta de la Patrie, neppure in privato, figuriamoci in pubblico. Ora, ci si può immaginare il generale americano Westmoreland brindare alla vittoria dei Vietkong dopo l’offensiva det Tet? Ma la generalanza italiana sembra fatta d’altra sostanza: pagato il riscatto (favolose 10 milioni di lire di allora), Albertone rientrò in Italia, dove fu premiato con una medaglia d’argento al valor militare. Mentre che invece i poveri caduti italiani rimasero abbandonati a cibare gli uccelli e le jene che infestavano quella contrada. (D.M.)