Come la Germania scivola verso una deriva ultraconservatrice
Di fronte ai sondaggi che vedono l’Afd vittoriosa sia in Sassonia che in Turingia, bisogna interrogarsi sul motivo di questa ascesa che sembra oramai inevitabilmente il prologo di una nuova era politica; una nuova era che pare vedere nei partiti di estrema destra l’unica alternativa di governo possibile.
La “scimmia del Quarto Reich”, come cantava De André nella sua canzone “La domenica delle salme”, sembra lentamente impossessarsi delle anime tedesche, rischiando di macchiare nuovamente il Zeitgeist di un paese che per quasi 80 anni ha dovuto fare i conti proprio con quell’estrema destra che fece genuflettere l’intera Europa e, infine, la Germania stessa.
Eppure, qualcosa non quadra. Come può essere che in un paese come la Germania, dove la produzione industriale – come sostengono molti esperti – avrebbe bisogno di oltre 400mila immigrati l’anno, dove la percezione oggettiva è quella che permette di constatare che in molti settori oramai lavorano quasi solo ed esclusivamente “stranieri” (gastronomia, edilizia ecc.) e la manodopera, in generale, scarseggia tantoché le imprese faticano a trovare lavoratori, gli elettori si sentono di votare proprio quei partiti (Afd, BSW ecc.) che vogliono trasformare i confini in muraglia?
In altre parole: da dove viene la tentazione del muro, del borgo, della muraglia? La Germania sembrava aver fatto molti progressi per quanto riguarda l’immigrazione. A partire dagli anni 90 aveva iniziato a trasformare l’amministrazione che si occupava degli stranieri in un vero e proprio sistema di integrazione, permettendo a chi arrivava in questo paese di frequentare dei corsi di lingua e di formazione. Il sistema sociale tedesco, un sistema universalistico, prevede degli aiuti anche per stranieri, in modo da permettere anche a loro una vita dignitosa. E, proprio quest’anno, è entrata in vigore la nuova legge sulla cittadinanza, che rende più facile la naturalizzazione.
Nonostante questi passi in avanti, tuttavia, la Germania resta, sostanzialmente, un paese restio nei confronti dell’immigrazione. Emblematico è il fatto che in Germania l’immigrazione “clandestina” resta un reato, dunque un tabù. E così, chi mette piede in Germania e non ha un titolo di soggiorno, un visto, è stigmatizzato, vale a dire: compie un reato. La conseguenza? L’immigrato “clandestino”, irregolare, senza permesso, è quasi sempre un pregiudicato. Il paese, dunque, che nell’Unione Europea approfitta di più dello scambio di merci, anche con i paesi non appartenenti all’Ue, non accetta – per legge! – che un uomo metta piede nel territorio tedesco, se non è in possesso di un permesso.
Ma il reato di clandestinità è soltanto una reliquia, un ultimo coccio di tempi ormai passati? No. Purtroppo no. Oltre all’Afd, anche la Cdu/Csu non riconosce la Germania come paese di immigrazione (in ted.: Einwanderungsland), nonostante il dato di fatto che oltre un quinto della popolazione ha origini straniere. Il nuovo programma politico dei cristiano-democratici, inoltre, la dice lunga sull’accoglienza nei confronti delle minoranze, quando si invoca – nuovamente – una “cultura guida”, una Leitkultur che dev’essere orientamento per chi arriva in questo paese.
Eppure, proprio noi italiani siamo la prova del fatto che essere accettati, essere “integrati” non ha nulla a che fare con fattori oggettivi che si possono misurare, constatare empiricamente, come ad esempio il successo nei percorsi formativi (scuola, università) oppure la presenza o meno nelle statistiche relative alla criminalità. “Gli italiani in Germania sono, oramai, ben integrati”, si dice generalmente.
Ma è vero questo?
Secondo me no. Quando frequentavo l’università c’erano tantissimi studenti turchi o di origine turca, gli italiani, invece, si potevano contare in una mano. Stessa cosa vale per i ginnasi. La maggior parte degli italiani stentano a raggiungere l’obiettivo maturità. Conosco tantissimi italiani che vivono in Germania da oltre quattro decenni e stentano a parlare in tedesco. Pochissimi conoscono, ad esempio, la Storia di questo paese oppure la cultura – questa è ovviamente la mia percezione soggettiva, può essere – e, in fondo lo spero – che erro. Ciò nonostante, se un italiano commette un omicidio, tuttavia, nessun giornale tedesco utilizzerebbe la notizia per scatenare un polverone sulla questione sull’integrazione, se questa sia fallita o meno. Stessa cosa vale per gli spagnoli, i francesi (almeno che non siano di origine magrebina) e i portoghesi.
Qual è, dunque, la differenza tra gli italiani “integrati” e gli altri (turchi, siriani, afgani ecc.)? La differenza pare che sia l’accettazione da parte dei tedeschi. Grazie ai luoghi d’incontro che gli italiani hanno saputo creare, ristoranti, bar, gelaterie ecc., i tedeschi hanno avuto modo di conoscerci meglio. Ovviamente anche il fatto che moltissimi sono stati almeno una volta in Italia a fare vacanze ha giovato tanto. Ma quel che conta, appunto, è il luogo d’incontro, lo scambio culturale, l’interesse, a volte anche reciproco, i dialoghi tra il cameriere e la famiglia tedesca nel ristorante. Insomma: “Der Gino ist aus Kalabrien, da müssen wir mal hin!“.
Invitato a intervenire sulla rivista “Dedale” in un numero monografico del 1999 dedicato alla “Venuta dello straniero”, il filosofo francese Jean-Luc Nancy racconta l’esperienza vissuta del trapianto del proprio cuore. Il verdetto della scienza medica era stato inappellabile: solo un nuovo cuore gli avrebbe permesso di vivere poiché il vecchio aveva esaurito la sua carica. Insomma, il cuore di un altro, di uno “straniero” appunto, doveva sostituire il cuore del filosofo. Ma per rendere possibile un trapianto la medicina sa bene come sia necessario abbassare le difese immunitarie prevenendo eventuali crisi di rigetto. Per consentire alla vita di continuare a vivere è necessario ridurre l’identità sostanziale di quella vita, è necessario il meticciato, la porosità dei confini, la “contaminazione” da parte dello straniero. Senza questa apertura la vita morirebbe.
Abbassare le difese (immunitarie), rendere il confine un con-fine (e non trasformarlo in muraglia), dovrebbe essere la reazione ai movimenti identitari. Chi non riconosce nelle migrazioni, nelle minoranze, nei nuovi arrivati sé stesso, vuol dire che non conosce la propria indole, non accetta che anche in ognuno di noi abita uno straniero che ci permette di vivere. Il vero straniero, in fondo, non è lo straniero. Il vero straniero è quello che si trova in noi.
In sintesi: quello che spinge l’elettorato a votare le estreme destre è la paura dello straniero che li abita. È la paura di dover accettare lo straniero, forse anche di dover – per certi versi – adattarsi ad una nuova Germania, una Germania terra di confine.