La furia iconoclasta seguita alla morte dell’afroamericano impone una rilettura della storia
Sull’onda dello sdegno suscitato dall’uccisione di George Floyd, il nero afroamericano soffocato da un agente di polizia a Minneapolis in Minnesota, la protesta antirazzista ha fatto il giro del mondo superando, in impeto e velocità, la pandemia da Coronavirus. Le immagini degli ultimi minuti della vita di Floyd resteranno a lungo nella memoria collettiva. Il suo lamento “I can’t breath” (“non posso respirare”, ndr) ha commosso milioni di persone che, unite da un forte anelito di giustizia, hanno riempito le strade e le piazze di molte città d’America e non solo. Nonostante le devastazioni e i saccheggi delle prime ore abbiano comportato il rischio di compromettere la legittimità della protesta, il consenso che essa ha ottenuto ha superato le aspettative degli stessi organizzatori. Neanche il mortale attentato a Martin Luther King, il 4 aprile 1968 a Memphis in Tennessee, aveva suscitato una reazione tanto vasta come quella messa in moto da “Black Lives Matter”, movimento attivista internazionale nato nel 2013. Un recente sondaggio della Monmouth University nel New Jersey ha evidenziato che gli statunitensi che credono che il razzismo sia un grande problema sono il 76% della popolazione, nel 2015 erano il 50% (fonte: New York Times). Il consenso di massa raggiunto dal movimento dopo la morte di Floyd ha superato di gran lunga quello che aveva Martin Luther King al culmine della sua popolarità, quando a Washington pronunciò il suo veemente discorso contro la discriminazione razziale e per ben sei volte ripeté la frase «I have a dream». A oltre mezzo secolo di distanza quel sogno è ancora ben lungi dal realizzarsi e tuttavia oggi c’è una diversa sensibilità a livello globale.
Per le modalità in cui è accaduto, l’episodio di Minneapolis ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed è riuscito a innescare qualcosa di nuovo, inatteso e simultaneo: la caccia ai memoriali di personaggi storici che, già controversi, sono diventati improvvisamente sgraditi. Un tempo celebrati, poi tollerati, poi di colpo rinnegati e oltraggiati. Cristoforo Colombo e Wiston Churchill i più famosi. Ma anche Robert Edward Lee, generale sudista; il re belga Leopoldo II; Jean-Baptiste Colbert, ministro sotto Luigi XIV. La protesta antirazzista è diventata furia iconoclasta. Il caso più spettacolare è stato quello della statua di Edward Colston, mercante britannico che si arricchì con il commercio degli schiavi. Nato nel 1636 a Bristol, visse 85 anni. Con i guadagni accumulati fece opere di bene e costruì scuole. Circa due secoli dopo la morte, nel 1895, Bristol gli dedicò una statua con un’iscrizione che diceva “Eretta in memoria di uno dei figli più virtuosi e saggi della città”. Ora quella statua non c’è più. Il 7 giugno i manifestanti di Black Lives Matter l’hanno abbattuta, trascinata per le strade della città e buttata nelle acque del porto. Amen.
La tratta degli schiavi è stata uno dei capitoli più crudeli della storia dell’umanità e ha interessato almeno 12 milioni di neri africani costretti a lavorare nelle piantagioni di cotone, cacao, zucchero e tabacco delle colonie americane. Quando, il 4 luglio 1776 tredici colonie dichiararono la propria indipendenza e nacquero gli Stati Uniti d’America, la schiavitù era un istituto previsto dalla legge. Ignorare questo particolare quando si afferma che gli Stati Uniti sono la più vecchia democrazia del pianeta equivale a giustificare una contraddizione che sopravvive ancora oggi. La guerra di secessione, che si combatté tra gli Stati del nord e quelli del sud dal 1861 al 1865 proprio a causa della schiavitù e che terminò con la sua abolizione, non è bastata a liberare gli Stati Uniti dal germe del razzismo. Dall’abolizione della schiavitù ad oggi sono passati 155 anni durante i quali il razzismo ha continuato a pervadere la società americana e poco o nulla ha potuto l’elezione di Barack Obama, primo presidente afroamericano eletto alla Casa Bianca. Oggi alla guida del paese c’è Donald Trump, un incapace che strumentalizza i grandi temi che affliggono l’umanità nel XXI secolo, migrazione, razzismo, clima, col risultato di accentuare divisioni e conflitti nella società americana e nel resto del mondo. Dopo tre anni e mezzo di scempi la maggioranza dei cittadini si è finalmente resa conto di chi li governa e ora è presumibile che l’aspettativa di giustizia sociale che aleggia in America contribuirà all’uscita di scena di Trump. Auspicabilmente lo stesso destino toccherà ad altri leader che in Trump hanno trovato un modello di riferimento.
La caccia alle statue sgradite ha fatto una vittima anche in Italia. A Milano è stata vandalizzata la statua di Indro Montanelli, sostenitore e partecipe del colonialismo fascista in Corno d’Africa. La statua era stata già oltraggiata, l’8 marzo 2019, da femministe che l’avevano cosparsa di vernice rosa. Realizzata nel 2005, quattro anni dopo la morte del giornalista, fu collocata non lontano dal luogo in cui, nel 1977, fu ferito dalle Brigate Rosse. Questa volta l’hanno imbrattata di vernice rossa e sulla base hanno scritto “razzista stupratore”. Nel 1936 Montanelli comprò una ragazzina eritrea di 12 anni con la quale ebbe rapporti sessuali. La storia la raccontò lui stesso, nel 1969, all’interno del programma Rai “L’ora della verità” di Gianni Bisiach (di cui esiste un filmato YouTube) e poi anche sul Corriere della Sera, il 12 dicembre 2000, in un articolo dal titolo “Quando andai a nozze con Destà”. La visione del filmato e la lettura dell’articolo consentono di farsi un’idea precisa e senza intermediazioni, cosa che abbiamo fatto anche noi. E abbiamo avuto la chiara impressione che Montanelli, anche dopo decine di anni dai fatti descritti, non abbia avuto alcun senso di colpa o pentimento che gli facesse rinnegare il passato.
Il gesto di vandalismo, deprecabile in sé, di cui è stata oggetto la sua statua ha suscitato un dibattito che ha visto gran parte del mondo politico e della cultura schierarsi in difesa della memoria del giornalista. Pochissime le voci controcorrente. Ad esse uniamo la nostra. Perché crediamo che assolvere Montanelli, offenda, oggi ancor più di allora, le vittime di sessismo e razzismo di allora e di oggi. E che neghi alla storia il ruolo che essa deve avere, quello di far luce sulla verità e di apprenderne la lezione ad uso futuro.