Sono trascorsi 40 anni. Per i più vecchi sembra ancora ieri il ricordo di quei 55 giorni di continua suspence sulla sorte del leader politico rapito e della sua tragica conclusione dentro un’utilitaria rossa parcheggiata in via Michelangelo Caetani nel centro di Roma, a pochi passi dal milite ignoto.
L’assassinio di Aldo Moro il 9 maggio 1978 rappresentò assieme il culmine ed il canto del cigno del terrore che agiva in nome del popolo; e la reazione dell’intero popolo fu di rifiuto, indignazione e sgomento. Anche quelli che simpatizzavano (segretamente o apertamente) con il terrorismo di sinistra andarono a distanza, ed improvvisamente i brigatisti apparvero agli occhi di tutti come quattro gattacci rognosi. Aldo Moro era nato nel 1916 nella tranquilla cittadina pugliese di Maglie, a sud di Lecce. Non fu un antifascista dell’ultima ora: già nel 1942 aveva incominciato a partecipare a incontri clandestini del partito cattolico. Presidente della DC, 5 volte presidente del consiglio ed innumerevoli volte ministro, fu uno dei “cavalli di razza” della politica italiana. Prima di diventare un martire era stato un politico molto controverso e si era fatto un profilo tutto suo: era celebre per le sue astruse metafore (per es., le famigerate „convergenze parallele“) e come maestro nell’arte di rispondere alle domande senza dar loro risposta. Posto davanti ad una questione concreta e precisa, riusciva sempre a svicolare in un discorso talmente prolisso e aggrovigliato, che al termine si restava con la sensazione sconcertante d’aver attraversato una nube gassosa. Si raccontava che in tal modo non solo riuscisse a mettere nel sacco i giornalisti, ma perfino il ministro degli esteri sovietico Gromyko, il quale alla fine uscì dai gangheri. Dopo questo episodio gli venne affibiato il nomignolo di „dottor Divago“. Si dice anche che Moro abbia sostenuto una feroce litigata con il segretario di stato americano Kissinger, che non voleva saperne della sua intenzione di far partecipare il PCI alla maggioranza governativa. E che al cancelliere tedesco Schmidt, che gli propinava i soliti „consigli benevoli“ abbia risposto con cortese freddezza che l’Italia ha anche un proprio governo. Il settimanale TIME gli dedicò una copertina vestito da principe rinascimentale.
Il grande imitatore di voci Alighiero Noschese ne fece il bersaglio di una delle sue caricature più esilaranti nello spettacolo teatrale Le voci dei padroni. Fu pure oggetto di critiche feroci da parte di intellettuali quali Pasolini e Sciascia che lo consideravano un garante del potere democristiano; in particolare Pasolini stigmatizzò il suo linguaggio incomprensibile come uno stratagemma per creare distanza fra i palazzi del potere ed il popolo. Ciò malgrado Moro non fu mai accusato, neppure dai suoi peggiori nemici, di disonestà o corruzione. L’aura di mistero e malaffare che circondava certi suoi colleghi gli restò sempre estranea. Mi sembra doverosa a questo punto un’osservazione: i terroristi non ammazzarono a sangue freddo solo Moro-Superstar, ma prima ancora massacrarono i cinque uomini della sua scorta. Dal loro punto di vista non erano altro che sbirri al servizio del capitalismo ovvero “nemici di classe”. La moglie del maresciallo Leonardi non avrà sofferto meno di Eleonora Moro. È sconcertante l’indifferenza dell’opinione pubblica italiana davanti alla morte in servizio d’un poliziotto, quasi che indossare l’uniforme ti tramuti automaticamente in carne da macello, o ti renda indistinguibile dagli altri come un birillo. Ma il valore d’una vita umana non dipende certo dal grado di notorietà d’una persona. Ergo: se il popolo in nome del quale le Brigate Rosse agivano era un’entità puramente immaginaria, purtroppo il popolo dei teleschermi era reale e si profilava già allora nella sua deformazione mentale come in un uovo di serpente. Fu durante quei 55 giorni in potere delle Brigate Rosse nella cosiddetta “prigione del popolo” che Moro assunse giustamente il ruolo di vittima d’una violenza spietata e del delirante dogmatismo marxista, ma gli spettava ancor più il ruolo di vittima della doppiezza dei suoi compagni di partito che non mossero un dito per salvarlo. La vedova Moro proibì alle autorità politiche di partecipare alle esequie. La tragica fine del grande politico è rimasta un trauma irrisolto per la nazione ed è circondata da molti enigmi mai chiariti e da speculazioni dietrologiche come in un analogo italiano del caso Kennedy.
La bibliografia sull’argomento è sterminata e continua ad aumentare: ci limitiamo a ricordare “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia: scritto tempestivamente pochi mesi dopo, lo scrittore siciliano che allora sedeva in Parlamento per il Partito Radicale, vi analizza con acutezza tutte le incongruenze emerse fino a quel punto e come Moro „il meno implicato di tutti“ fra i democristiani avesse pagato per loro e come costoro, dopo averlo lasciato cinicamente ammazzare, lo avessero ipocritamente trasformato in un santo intoccabile il cui culto doveva servire ad occultare le loro colpe. Dei molti film a lui dedicati con grandi nomi di attori e registi, il Consolato Italiano ha scelto il classico “Il caso Moro” con Gianmaria Volontè come protagonista per una serata commemorativa nella sua Sala Europa. La presentazione è stata affidata al prof. Massimo Fagioli del Kulturverein Italiani in Deutschland.
Per la precisione Volontè ha interpretato con straordinaria bravura il boss democristiano per ben due volte in due diversi film: il Moro-vittima nel film di cui sopra, ed il Moro-moroteo nel film Toto Modo (regia di Elio Petri), che è tratto dall’omonimo romanzo giallo di Sciascia apparso nel 1974, ed in cui si narra d’una riunione cospirativa camuffata da ritiro spirituale per politici democristiani intenti ad ammazzarsi reciprocamente fra una giaculatoria e l’altra. Moro è morto quaranta anni fa, ma il suo spirito vive ancora oggi: l’attuale GroKo berlinese non si potrebbe definire un “governo delle divergenze parallele”?