Germania, depenalizzato il suicidio assistito anche per chi non è malato terminale

Se l’isteria del coronavirus non avesse invaso le pagine dei giornali, molto più spazio sarebbe stato dedicato ad una sentenza della Corte Costituzionale Tedesca (Bundesverfassungsgericht) di Karlruhe che ha dichiarato incostituzionale il paragrafo 217 che vietava sotto gravi sanzioni di aiutare un paziente che desiderasse porre fine alla sua vita. Questa legge venne decisa a grande maggioranza nel 2015 dalla Groko (grande coalizione CDU/CSU-SPD), e fu salutata da alcuni commentatori come un vertice, una “Sternstunde” del parlamentarismo.

Oggi è stata completamente vanificata dalla sentenza di Karlsruhe, in quanto non conforme ai diritti civili sanciti dalla Verfassung, cioè dalla Costituzione tedesca.

Anche se un grande applauso in sala, che era gremita di folla, ha salutato la sentenza, non tutti hanno esultato. Diversi politici della SPD e della CDU/CSU si sono dichiarati assai delusi. Il vescovo di Magonza Peter Kohlgraf si è dichiarato contrario ad ogni forma di suicidio assistito. E l’ex-presidente dell’Ordine dei Medici Tedeschi Frank Ulrich Montgomery ha dichiarato che i medici non devono passare da portatori di guarigione a portatori di morte.

Ma la sentenza del Verfassungsgericht va molto più in là di quanto ci si potesse aspettare, perché non riguarda solo gli aspiranti in quanto malati in fase terminale, ma ogni cittadino in generale. Poiché ognuno è padrone della propria vita e soltanto lui può decidere cosa farne. Con conseguente radicalità, la Corte ha riconosciuto ad ogni essere umano il diritto al suicidio, non importa quali siano le sue motivazioni, che sono un affare privato del cittadino, e non riguardano lo Stato in alcun modo.

Per capire la portata della vicenda, facciamo un breve riassunto di ciò che è accaduto in precedenza. In Germania, siccome il suicidio non è punibile per legge, non poteva esserlo neppure per chi lo aiutava. Si può punire legalmente chi è complice di un delitto, per esempio uno stupro o una rapina in banca, ma come si può punire chi aiuta un altro a compiere un non-delitto? È merito della GroKo aver trovato il pretesto giudiziario giusto: lo scopo di lucro. Sul suolo tedesco si erano formate ed erano attive molte aziende che offrivano assistenza a pagamento a chi volesse suicidarsi: con tariffe fra i 200 € e i 7.000 €. Ma il paragrafo 217 prevedeva anche pene carcerarie per i medici che avessero assistito al suicidio, anche se è difficile sostenere che i medici non abbiano diritto ad agire per scopo di lucro. Così nel 2015 una grande maggioranza parlamentare (360 Sì contro 233 No) votò a favore del paragrafo 217 del Codice Penale Tedesco (Strafgesetzbuch) il quale dice che “chi consapevolmente concede, procura o media come un affare la possibilità di suicidio di un altro, viene punito con una pena detentiva fino a tre anni”.

Nel periodo successivo si sono levate molte voci critiche contro questo paragrafo da parte di organizzazioni umanitarie come la Sterbehilfe. Sul tavolo della Corte Costituzionale, nel corso degli anni, si sono accumulate una dozzina di eccezioni di incostituzionalità. Così, 5 anni dopo, si è giunti a questa conclusione che è stata un trionfo di livello insperato per gli abolizionisti..

In realtà la questione di come giudicare il suicidio è controversa da molti secoli. Nell’antichità era considerato una espressione di alta virtù morale anche da autori come Plutarco. Ma perfino padre Dante, pur piantando nell’Inferno la selva dei suicidi, con Pier delle Vigne, mette tuttavia il suicida Catone Uticense nel Purgatorio cristiano. Il Cristianesimo però è stato sempre di opinione nettamente contraria: poiché la vita è un dono di Dio, soltanto Lui ne può decidere, e non sta all’uomo togliersela; e per questo, nei secoli passati, chi tentava il suicidio o finiva al cimitero o in gattabuia. Dio ci ha dato la vita, e solo Lui ce la può togliere. Ma lo Stato moderno è laico, e quindi deve comportarsi in maniera neutrale verso ogni credo religioso, e questa è pure la motivazione con cui un altro recente giudizio di Karlsruhe ha giustificato la proibizione di portare il velo a chiunque sieda dentro un’aula giudiziaria in rappresentanza ufficiale dello Stato.

Quindi lo Stato laico non può imporre ai propri cittadini di vedere il suicidio come lo vede la Chiesa Cattolica. Fermo restando che la Chiesa Cattolica ha, dal canto suo, tutto il diritto di sostenere e propagandare il suo punto di vista.

A questo punto è forse opportuno ricordare come sono andate le cose in Italia, pochi anni fa, con il famoso caso Welby. Ammalato di una grave forma di distrofia muscolare, lentamente e inesorabilmente perse l’uso degli arti, poi della parola, riducendosi a stare immobile sul letto, attaccato a un respiratore automatico, a mente lucida. Pur avendo disperatamente richiesto, a più riprese, che gli staccassero la macchina respiratoria, consentendogli di morire, si scontrò contro le barriere erette dallo Stato Italiano contro il suicidio assistito, in una controversia bizantina di definizioni da “eutanasia passiva” a “rifiuto dell’accanimento terapeutico” a “desistenza terapeutica”. Alla fine venne in suo soccorso il dott. Mario Riccio, un anestesista di Cremona che, in presenza di testimoni, dopo avergli dato un sedativo gli staccò la macchina respiratoria. Mezz’ora dopo Piergiorgio Welby spirò. Era il 20 dicembre 2006, ma la storia non finì lì. Il cardinale Ruini proibì il funerale religioso desiderato dalla vedova, e un funerale laico venne celebrato in una piazza gremita di folla davanti alle porte chiuse della chiesa. Il dottor Riccio trovò chi lo denunciò per omicidio, per “assassinio del consenziente”, e passò diversi guai giudiziari finché non venne completamente prosciolto. Anche in questo caso vennero invocati principi della la Costituzione, quella italiana, che prevede il diritto a rifiutare le cure da parte del malato, a cui nessuna cura può venire imposta. Si sta facendo quindi strada la concezione laica che vede la vita come un bene personale e pertanto nella propria disponibilità.

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