Foto simbolica. Foto di ©Rozbooy su Pixabay

Una riflessione personale su paura, controllo e l’emergenza permanente

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dal 2020, è che la paura è un’arma potente. Per anni ci hanno bombardato con allarmi continui sulla pandemia, portandoci ad accettare restrizioni senza precedenti, controlli e obblighi che fino a poco prima sarebbero sembrati impensabili. Ora, mentre il Covid sembra un ricordo lontano, il clima di emergenza non è affatto finito: al contrario, si è solo trasformato. Il nuovo grande spauracchio è la guerra.

Da mesi, politici e media dipingono scenari da incubo: conflitti sempre più vicini, instabilità globale, minacce informatiche, blackout, crisi alimentari. E mentre l’ansia cresce, l’Unione Europea ha lanciato il suo piano Preparedness Union, con un messaggio chiaro: bisogna essere pronti a tutto.

Il piano della Commissione Europea prevede ben 30 misure per affrontare le possibili crisi. Tra le più significative:

Scorte di emergenza: ogni cittadino dovrebbe avere cibo, acqua e medicinali per almeno 72 ore.

Corsi di sopravvivenza a scuola: gli studenti impareranno come prepararsi a situazioni di crisi.

Piani di emergenza per infrastrutture vitali: ospedali, trasporti e telecomunicazioni dovranno attrezzarsi per funzionare anche in caso di blackout o attacchi.

Esercitazioni di crisi su larga scala: polizia, protezione civile, esercito e servizi sanitari si addestreranno insieme per gestire emergenze.

Piani aziendali per garantire beni essenziali: le imprese dovranno assicurare la produzione e la distribuzione di prodotti critici.

In Germania, la preparazione va addirittura oltre: il governo raccomanda ai cittadini di avere scorte alimentari per dieci giorni e di tenere pronto un “kit di sopravvivenza” con vestiti caldi, torce, batterie e documenti importanti.

Fermiamoci un attimo e chiediamoci: tutto questo è davvero solo per la nostra sicurezza? Certo, nessuno può negare che viviamo in tempi difficili, ma la storia ci ha insegnato che spesso le emergenze vengono usate per giustificare misure di controllo sempre più invasive.

Durante la pandemia, la paura è stata usata per convincerci ad accettare misure drastiche: dal lockdown ai certificati sanitari, fino a limitazioni che hanno inciso profondamente sulla nostra libertà. Adesso, con la minaccia della guerra, il meccanismo sembra lo stesso: allarmi continui, richiami alla responsabilità collettiva e nuove restrizioni che potrebbero diventare la norma.

E se quello a cui stiamo assistendo fosse solo un altro passo verso una società ipercontrollata, dove il cittadino è costantemente messo sotto pressione, in ansia, pronto ad accettare qualunque misura “per il bene comune”?

L’idea di un popolo impaurito e costantemente in allerta fa comodo a chi governa. Una società che vive nel terrore è una società più facile da controllare: meno ribelle, più disposta ad accettare limitazioni, meno propensa a farsi domande.

Oggi ci dicono che dobbiamo essere pronti a crisi imprevedibili, proprio come ci dicevano che il Covid sarebbe durato anni e che solo con sacrifici estremi avremmo potuto uscirne. I governi europei, invece di concentrarsi su politiche di pace e stabilità, alimentano l’idea di un futuro incerto, in cui ogni cittadino deve essere pronto a sopravvivere autonomamente per giorni, mentre le istituzioni accumulano potere e controllo. Stiamo forse andando verso una società in cui il concetto di “normalità” viene sostituito da un’emergenza permanente? Forse è il momento di smettere di vivere nella paura e iniziare a chiederci dove ci stanno portando.