Nella foto: Manifestazione. Foto di © Kevin Snyman su Pixabay

COP29: Un summit sul clima intrappolato tra contraddizioni, petrolio e promesse vuote

Quando ad una conferenza sul clima arrivano in undici giorni 51.000 (diconsi cinquantunomila) delegati accreditati, c’è già di partenza qualcosa che non quadra, visto che gli illustri partecipanti al COP29 a Baku non ci sono certo arrivati a piedi.

Al netto, quindi, degli affari d’oro per hotel, agenzie di viaggio e compagnie aeree c’è da chiedersi a che cosa servano questi continui summit mondiali organizzati soprattutto per ridurre il consumo di combustibili fossili quando – sembra una presa in giro – vengono organizzati proprio in quei paesi che campano sul petrolio. Anche per questo i presupposti della conferenza di quest’anno sono effettivamente pessimi con il passaggio di consegne alla presidenza dal dirigente petrolifero Sultan Ahmed Al Jaber (presidente della Cop28 negli Emirati Arabi l’anno scorso) al ministro dell’ambiente azero Mukhtar Babayev, ex manager dell’oro nero della compagnia di Stato azera SOCAR. Sono mancati gran parte dei VIP del mondo e quest’anno poi sul summit “si allunga l’ombra della nuova presidenza Trump”. Già, perché state sicuri che per qualsiasi disastro ambientale del prossimo quadriennio la responsabilità sarà sua, dell’uomo-nero di Washington dipinto come insensibile al futuro del pianeta e ansioso di inquinare ed estrarre il più possibile e quindi colpevole di ogni nefasto guasto climatico.

Effettivamente il paese con più peso politico ed economico del mondo potrebbe presto uscire dagli “Accordi di Parigi” ma pochi ricordano che anche la Cina ha sottoscritto gli accordi di Parigi ma non li ha minimamente mantenuti e anzi l’inquinamento cinese “pesa” come elemento maggiore sulla diffusione di CO2 in atmosfera. Se infatti si va a guardare nel ginepraio delle statistiche (spesso in contraddizione una con l’altra, perché anche sui numeri c’è “guerra”) si scopre che la Cina – con 9,9 miliardi di tonnellate di CO2 emesse – ne diffonde più del doppio degli Stati Uniti (4,5 miliardi di tonnellate) e quattro volte l’India che – con 2,3 miliardi di tonnellate – conquista la terza posizione, anche se Cina ed India crescono in emissioni molto più velocemente delle nazioni occidentali.

E noi? Bruxelles gongola e si dà le arie da prima della classe sostenendo che nel 2023 l’Europa avrebbe tagliato dell’8,3 per cento le emissioni rispetto al 2022. Il problema è però che l’Europa tutta intera produce circa solo il 7% della CO2 e la Cina da sola supera la somma delle quattro economie che la seguono: Stati Uniti (12,5%), Unione Europea (7,3%), India (7%) e Russia (5%).

A parte il “costo” di questa scelta energetica per gli europei il solo aumento di CO2 cinese ha di gran lunga superato ogni “risparmio” europeo. Per l’ennesima volta si torna quindi al punto di partenza: o chi inquina di più si impegna effettivamente a ridurre le immissioni o quel “il green è bello” made in Bruxelles a livello globale non conta (quasi) niente.

La partita di Baku si gioca però anche sulle “compensazioni” da dare ai paesi “poveri” in cambio che non aumentino troppo il loro carico inquinante e si parla di mille miliardi di dollari, una somma colossale che qualcuno (i più ricchi) dovrebbero pagare. Ne uscirà probabilmente anche quest’anno un nulla di fatto, ma – al di là di ogni ironia – questa non è certamente una bella notizia per le conseguenze sul clima mondiale, anche se la partita non si può giocare solo sulle emissioni dei gas serra ma anche su innumerevoli altre iniziative ecologiche per la conservazione del pianeta di cui però – al confronto – si parla comunque troppo poco e forse talune volte fuori luogo, cioè si parla e basta senza concludere nulla!