La guerra in Ucraina e la russofobia crescente
La guerra è orribile e tremenda; sapere che a poche centinaia di chilometri di distanza dalle nostre città, altre città vengono bombardate e distrutte, che la popolazione civile viene massacrata, che politici e generali non trovano l’umiltà e il coraggio per cessare il fuoco e sedersi ad un tavolo di trattativa, tutto questo ci deprime e ci fa sentire impotenti.
La guerra che incombe da lontano sulle nostre teste ci condiziona e cambia il nostro modo di pensare. Ci costringe, per esempio, a rivedere il nostro concetto di cosa significano davvero pace e resistenza, a riflettere su cosa sia moralmente giusto fare o non fare.
Quando c’è una guerra in corso, l’informazione muta pelle, partecipa essa stessa al conflitto, anche quando non ne è consapevole. La verità è la prima vittima di ogni conflitto, viene detto e scritto sovente di questi tempi riferendosi ad una celebre frase del drammaturgo ateniese Eschilo.
Ma non è soltanto la verità ad essere sacrificata
Un’altra conseguenza detestabile che la guerra porta con sé è l’odio verso il nemico. Siamo indotti a disprezzare chi attacca i nostri alleati, i nostri ideali, i nostri valori. Finiamo col desiderare la scomparsa del nemico, il suo annientamento, in una spirale vertiginosa nella quale non si salva più nessuno. E non è coinvolto solo il nemico di adesso: diventa nemica tutta la sua cultura, la sua tradizione. È questo è davvero deprimente.
Parliamo della Russia e di Putin, naturalmente. La guerra che il presidente russo ha scatenato il 24 febbraio di quest’anno contro l’Ucraina è un atto terribile per il quale non sussiste nessuna possibile giustificazione. I danni sul piano geo-politico ed economico sono devastanti.
Ma anche sul piano della psicologia di massa le conseguenze sono state fatali: nel giro di pochi giorni ci siamo trovati a provare rabbia e rancore non solo contro il leader della Federazione Russa, non solo contro i generali e gli ufficiali dell’esercito di Mosca, ma anche contro i singoli soldati semplici, contro qualunque cittadino di quella nazione.
Sappiamo benissimo che lo studente di S. Pietroburgo e la massaia di un qualche villaggio della Siberia non hanno nessuna colpa, eppure li coinvolgiamo inconsciamente nel nostro disprezzo. E con loro tutto quello che la Russia ha prodotto nei secoli, una civiltà e una cultura di livello straordinario.
Ma cosa c’entra Fëdor Dostoevskij con Vladimir Putin e con la sua guerra attuale?
Assolutamente nulla, eppure un’università italiana, la Bicocca di Milano, ha cancellato una conferenza sul romanziere russo, salvo poi accettarla, ma a patto che ci fossero anche conferenze su scrittori ucraini: un rimedio che è perfino peggio della pecca iniziale. Molti centri di ricerca stanno interrompendo gli accordi di scambio scientifico con atenei russi corrispondenti. Artisti, musicisti, scrittori di nazionalità russa vengono inibiti nella loro attività a meno di pubbliche dichiarazioni contro il governo del loro paese. Il Museo nazionale del Cinema di Torino ha cancellato una retrospettiva sul regista russo Karen Georgievich; il sindaco di Milano Beppe Sala ha congedato il direttore d’orchestra Valery Gergiev, considerato troppo amico di Putin per lavorare alla Scala. Ai tennisti russi si minaccia l’esclusione dai principali tornei internazionali.
Ha senso questa diffusa “russofobia”? È una risposta sensata?
A Berlino qualche scellerato ha dato fuoco a una scuola europea russo-tedesca, per fortuna senza fare vittime. I memoriali sovietici della Seconda guerra mondiale vengono imbrattati in continuazione.
Siamo arrivati al punto che la compagnia di assicurazioni svizzera, Zurich, ha deciso di rimuovere la “Z” che da sempre contraddistingue il suo logo, per evitare che qualcuno la prendesse per un ammiccamento alla “Z” che campeggia sulle divise dei soldati russi e sui loro carrarmati.
È questo il modo corretto per superare i dissidi della guerra e ricostruire la possibilità della pace? Dove si vuole arrivare con tale atteggiamento? Abolire lo studio della lingua russa in occidente, vietare l’esposizione di quadri di Kandinsky o altri pittori russi?
La cancel culture non è mai una buona idea, neppure quando animata da ottime intenzioni. Prima o poi finisce col ritorcersi contro chi la promuove.