Una Storia senza memoria che ci riguarda tutti
Quest’anno mio padre ha compiuto 65 anni, proprio come Michel Platini, il fantasista francese che agli inizi degli anni 80 faceva impazzire gli appassionati di calcio. Mio padre nacque lo stesso giorno in cui nasceva in Francia il numero 10 di quella Juve che perse la finale di Champions con l’Amburgo; anche lui da giovane avrebbe avuto gli stessi riccioli di Platini, ma non lo stesso modo di accarezzare il pallone. Mio padre lo calciava il pallone e, spesso, anche le gambe dell’avversario. Del resto mio padre è stato – nonostante il filo diretto che lo conduce al fuoriclasse bianconero – profondamente interista. Dilemma, tra l’altro, che prima o poi dovrò affrontare anch’io, quando, infatti, un giorno sarà mio figlio – che si chiama come mio padre – a chiedermi come mai tifo proprio per l’Inter. “Questione di pazzia”, risponderò. “O forse di colori?”, vedremo.
Ma quest’anno, esattamente il 20 dicembre, ci sarà un altro compleanno. A festeggiare saranno in pochi, visto le condizioni dovute a questo invisibile separatore sociale che ormai tutti i giorni ci accompagna ovunque e che si è autoincoronato monarca del mondo. A compiere 65 anni è una carta, un trattato, un accordo: l’accordo tra l’Italia di Antonio Segni e la Germania occidentale di Konrad Adenauer (in ted.: Anwerbeabkommen). Un trattato trascurato dalla Storia, ma che ci riguarda tutti: se per il mondo della politica l’Europa inizia con i trattati di Parigi nel 50, per noi lavoratori, emigrati, figli di emigrati, la Storia dell’integrazione europea inizia in quell’anno 1955.
Come la nascita di un (futuro) padre, anche quel trattato si rivelerà fondamentale in quanto “conditio sine qua non” per la vita di milioni di italiani che verranno in Germania: se non ci fosse stato quell’accordo, mio nonno, padre di mio padre, non avrebbe preso un giorno – nel lontano 1967 – il treno che lo portava dalla stazione di Siracusa fino a Karlsruhe – passando da Roma. E come mio nonno paterno, anche il padre di mia madre intraprese lo stesso viaggio. Lo chiamiamo incomprensibilmente “viaggio” quello dei nostri nonni, ma più che viaggio doveva essere un’odissea. Solo che, a differenza delle vicende che narra Omero, vicende eroiche e alquanto mitologiche, dei viaggi dei nostri nonni – in lacrime, con le valigie piene di nostalgia e qualche foto alterata e ingiallita per non dimenticare i volti – non ne parla oramai nessuno, salvo magari qualche storico in qualche documentario da rispolverare dagli archivi della prima Rai.
Quei viaggi sono entrati nell’oblio della Storia, una parte di noi che, purtroppo, è stata dimenticata, forse perché poco documentata. Ecco perché le celebrazioni che commemorano il trattato del 1955 sono spesso ripetitive e pletoriche: si parla molto, ma spesso si finisce per dire niente, o poco più di niente. Forse perché la Storia sembra – apparentemente – essere chiara: la Germania (ovest) post-nazista, quella fondata sulla nuova Costituzione democratica – il Grundgesetz che era stato proclamato appena sei anni prima, nel maggio 1949 – aveva “urgentemente” bisogno di manodopera, braccia vigorose, forti e robuste, che fossero disposte a ricostruire ciò che la seconda guerra mondiale aveva raso al suolo: strade, ponti, case e tutto il resto. Insomma, trasformare le macerie in infrastrutture, dimenticando per sempre la dolorosa “Stunde null”.
Questa forma di narrazione sembra riecheggiare anche dai libri di Storia, ma dietro alle palesi esigenze da parte del governo di Adenauer – e soprattutto dell’economia tedesca – si celano alcuni particolari: non è un caso se solo sei anni dopo il trattato italo-tedesco, in un torbido agosto del 61, a Berlino, si alzerà in pochi giorni un muro che sancirà la divisione netta delle “due Germanie”. Se fino a quel punto oltre tre milioni di tedeschi della Germania dell’est avevano attraversato il confine per trasferirsi definitivamente in quella occidentale, il muro – e il confine blindato – mise fine a quell’ondata di “DDR-Flüchtlinge”. Sicuro, dunque, che la ratificazione di quel trattato con l’Italia e di tutti quelli che lo seguirono (con la Turchia, con la ex Jugoslavia, con la Spagna, con il Portogallo, con il Marocco, con la Grecia, con la Sud-Corea e con la Tunisia) era solo una conseguenza del forte boom economico, del “Wirtschaftswunder” tedesco? Oppure era anche un modo per far fronte alla imminente – perché in qualche modo dai servizi segreti preannunciata e definitiva – soppressione dell’ondata di emigrazione di tedeschi che venivano dall’est?
I numeri sembrano confutare la tesi del boom economico: nel 1955 la disoccupazione nella Germania dell’ovest era circa al 7 per cento; un dato che non sembra rilevare una così forte ripresa economica. Ciò nonostante la forza-lavoro dall’Italia faceva comodo: i giornali dell’ovest alla fine degli anni 50 parlano spesso del fatto che un vantaggio non trascurabile dell’immigrazione dall’Italia consisteva nel poter evitare la costruzione di nuove abitazioni, visto che i “Gastarbeiter” sarebbero stati sistemati in magazzini, baracche, vecchi Arbeitslager abbandonati e quant’altro. Lo scrittore Delio Miorandi descrive nel suo romanzo “Antonio” come all’interno di queste strutture di legno semidistrutte si potevano in parte ancora leggere sulle pareti i messaggi in polacco scritti dai prigionieri di guerra. Ma perché costruire nuove case, se tanto al massimo i Gastarbeiter sarebbero rimasti qualche anno? Prima o poi sarebbero tornati a casa loro. Per non parlare del costo del lavoro: un lavoratore italiano si accontentava di quello che gli davano, non faceva domande (anche perché in quella lingua indecifrabile non sarebbe riuscito a farle).
Mio nonno paterno tornò a casa sua per sempre, ma non era una sua intenzione. Dopo tanti anni trascorsi a lavorare in fabbrica a Karlsruhe fu stroncato da un infarto a soli 47 anni, proprio in Sicilia, il giorno dopo il matrimonio di sua figlia. Si può dire che non l’ho conosciuto, avevo solo un anno quando spirò. Mio nonno materno, invece, tornò, dopo un incidente sul lavoro che lo costrinse a trascinare per il resto della sua vita una gamba. A Pachino, la cittadina più a sud dell’Italia, vendeva terreni, faceva il sensale. Sono gli stessi terreni che oggi fanno nascere il famoso ciliegino.
La Storia di quei nonni è una Storia europea, come fu europeo il meritato trionfo di Platini nel 1984: mio padre, quand’ero piccolo, mi parlava spesso delle perle di quel fuoriclasse che, casualmente, ha origini piemontesi. L’unica vera Europa, infatti, è quella che un italiano vive ogni giorno in Germania, quella di un portoghese in Francia oppure quella di un tedesco in Spagna. Siamo tutti europei in quanto viviamo l’Europa, respiriamo l’aria di un altro paese europeo, conosciamo le strade di un’altra città europea, forse anche meglio delle stradine e viuzze dei nostri paesini in Italia. E cosa sarebbe l’Europa se tutti fossimo “a casa nostra”, nella nostra “patria” (a proposito di padri)? Una sorte di mostro burocratico senz’anima, probabilmente.
La Storia siamo noi e la Storia esiste solo se viene raccontata. Non è la Storia che fa i racconti, ma sono i racconti che fanno la Storia: sono le parole di quei nonni, che purtroppo abbiamo ascoltato troppo poco. Questo Natale, se quel separatore sociale ce lo consente, cogliamo l’occasione, forse una delle ultime, per riascoltare i loro racconti: magari prendiamo qualche appunto per non dimenticare. Cominciamo in questo modo a trasformare la Storia dell’emigrazione di massa dei nostri nonni in Storia d’Europa, altrimenti non riusciremo mai a capire fino in fondo l’essenza di ogni emigrazione, un’essenza che va cercata soprattutto nella libertà dell’uomo che, a sua volta, è parte determinante della dignità di ognuno di noi. “Una vita migliore”, sognavano i nostri nonni, indipendentemente da quello che immaginavano di fare con loro gli accordi politici, quest’ultimi – assurdamente – documentati accuratamente. Eppure, rileggendoli quei trattati, non hanno alcunché di umano, mentre ogni racconto di un singolo “Gastarbeiter” è intriso, ricco e grondante di umanità. È la cruda ironia della Storia, che spesso – come diceva Fabrizio de André – dà voce ai potenti e dimentica quelli che forse “non sono gigli, ma son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.