Mentre le immatricolazioni delle auto del gruppo Volkswagen scendono in tutti i più importanti mercati, lo scandalo del dieselgate continua quasi quotidianamente a sorprendere l’opinione pubblica mondiale con sempre nuovi particolari sulla sistematicità di un colossale imbroglio a danno di automobilisti, Stati e Istituzioni pubbliche e private e non per ultimo a danno della natura, messo in atto dal più grande gruppo automobilistico europeo.
Un imbroglio in grande stile, fortunatamente finito anzitempo grazie alle autorità americane ecologiche senza le quali chissà quanti anni ancora sarebbe andato avanti. Una parte del vecchio vertice manageriale di Wolfsburg, a cominciare da Martin Winterkorn ex amministratore delegato (ad) del gruppo Vw, è già uscito dal vertice in un assordante silenzio, probabilmente la “conditio sine qua non” per un buon trattamento di fine rapporto.
Per quanto riguarda i nuovi manager giunti ultimamente al vertice Vw, essi faticano visibilmente ad accordarsi su una strategia d’uscita dalla grave crisi di cui presumibilmente erano informati e quindi almeno in parte responsabili. Nessuno escluso, neanche tra i rappresentanti sindacali che, a cominciare da Bern Osterloh, capo del Consiglio di Fabbrica, hanno sempre avuto un ruolo importante nelle decisioni della Volkswagen. Fino a tutto novembre i dipendenti del gruppo Volkswagen hanno avuto la possibilità, in cambio dell’assicurazione di non rischiare la perdita del loro posto di lavoro, di uscire allo scoperto ammettendo la loro partecipazione, voluta o passivamente subita, alle manipolazioni dei dati delle emissioni delle auto.
Soltanto una cinquantina di dipendenti ha fatto uso di questa possibilità, piuttosto pochi in realtà rispetto alla dimensione del gruppo. I quali oltretutto, in conformità a quanto è stato possibile apprendere, non hanno rivelato sinora nuovi sostanziali elementi rispetto a tutto ciò che già si sapeva sulle tecniche della sistematica falsificazione dei dati dei consumi e delle emissioni delle auto. Tecniche per che anni il grande gruppo automobilistico Vw avrebbe avuto modo di applicare senza che nessuno, a livello manageriale, politico e istituzionale se ne potesse accorgere. Era stato lo stesso l’ad della Vw Martin Winterkorn ad affermare, parlando nel 2012 al Salone dell’Auto di Ginevra, che ridurre entro il 2015 del 30% le emissioni di CO2 non era materialmente e legalmente possibile.
Quindi – questa la versione oggi accreditata – i tecnici e gli ingegneri della Volkswagen avrebbero deciso di ricorrere di loro spontanea iniziativa alle manipolazioni per non deludere il loro carismatico capo, al quale si guardarono bene di dire qualcosa. Naturalmente nessun esperto che abbia avuto modo di conoscere dall’interno la rigida struttura centralizzata del gruppo Volkswagen si guarda bene dal riconoscere a una simile ridicola versione anche la pur tenue attendibilità.
Auto “verdi” manipolate
Lo scandalo del dieselgate è esploso su denuncia americana a metà settembre e nell’ultima settimana di ottobre la direzione Audi di Ingolstadt si è vista costretta ad ammettere ufficialmente di aver montato anche nelle auto diesel di tre litri di cilindrata del gruppo Volkswagen tre diversi tipi di software di cui il primo sin dall’inizio era stato subito dichiarato assolutamente illegale negli USA perché aveva la funzione di manipolare i dati delle emissioni di CO2, decisive per l’effetto serra che provoca il riscaldamento del nostro pianeta, e di NOx , l’ossido di azoto responsabile di molte malattie umane, durante i test ufficiali (Defeat Device).
Questo software, contrariamente alle assicurazioni del vertice Volkswagen, era stato montato, oltre che nelle piccole e medie cilindrate, anche nei motori turbodiesel delle grosse cilindrate (3 litri) del gruppo prodotte dal 2009 fino al 2014, per complessivamente circa 100mila unità. Per la maggior parte nei modelli delle Audi Q7 e A8, mentre il resto aveva equipaggiato le auto Cayenne della Porsche e le Touareg della Volkswagen. Per quanto riguarda gli altri due tipi di software contestati dalle autorità americane EPA, definiti “Auxiliary Emission Controll Device” (AECC), secondo fonti Audi si tratterebbe di un’altra cosa, perché questo tipo di software non sarebbe in grado di distinguere tra la condizione di test e tra quella del normale uso in strada.
Di fatto, sta comunque che il programma di questi due software non era mai stato denunciato alle autorità americane che li hanno scoperti soltanto nel corso delle loro indagini che in un primo tempo avevano riguardato soltanto le auto di minor cilindrata del gruppo Volkswagen. Alla fine, l’Audi si è vista costretta ad ammettere che anche gli altri due software erano uno strumento di manipolazione, anche più raffinato del primo. Questo tipo di “tattica del salame” che la Volkswagen ha adottato dall’inizio dello scandalo dieselgate, cioè finire per ammettere solo ciò che gli americani riescono a scoprire dopo averlo negato fino all’ultimo minuto, ha avuto purtroppo soltanto l’effetto di danneggiare ulteriormente l’immagine già pesantemente compromessa del gruppo automobilistico di Wolfsburg.
Truccate anche le Audi e le Porsche
Non è detto ancora che tutti gli imbrogli siano già venuti a galla. L’ultima manipolazione è naturalmente la più grave perché intacca l’immagine di due “gioielli” del gruppo Volkswagen, le marche premium Audi e Porsche. La conferenza stampa convocata il 20 novembre nella centrale Volkswagen di Wolfsburg si era conclusa immediatamente dopo che il neo amministratore delegato della VW, Matthias Müller aveva finito di leggere un comunicato durato 3 minuti e 7 secondi senza dare poi ai giornalisti presenti alcuna possibilità di rivolgergli una sola domanda.
L’insolita e incomprensibile prassi è un po’ lo specchio del caos e della diffidenza che sull’onda delle continue rivelazioni sugli imbrogli sta dilagando ormai in tutto il gruppo. Anche l’ad Müller è direttamente coinvolto perché l’incriminato software era stato montato sui motori di 3 litri Porsche durante la sua gestione della famosa casa automobilistica di Stoccarda. E’ la stessa situazione di Rupert Stadler, capo della Audi di Ingolsstadt, responsabile della messa a punto dell’incriminato motore, lo stesso che, oltre alle vetture Audi, ha poi equipaggiato anche quelle della Porsche. “A mia totale insaputa”, asserisce oggi Müller, ma secondo gli esperti, invece, secondo una ben precisa e comune decisione dei due manager.
La polemica tra i due grossi calibri del management Volkswagen durante la gestione dell’ex numero uno del gruppo, Martin Winterkorn, è stata, almeno per il momento, repressa perché molto pericolosa non solo per i due manager ma anche per l’intera Volkswagen. Anche questo episodio, però, ha fatto capire che le manipolazioni dei motori diesel durate ben sette anni e realizzate in circa 130 varianti delle varie auto prodotte non potevano che essere un’iniziativa in grande stile attuata con la complicità di un considerevole gruppo di ingegneri e di manager, ben consci di fare qualcosa di illegale.
Complicità politiche a Berlino e a Bruxelles
Durante l’intero arco delle manipolazioni durate sette anni i manager Vw hanno sempre potuto contare sulla complicità del governo di Berlino e anche della Commissione Europea di Bruxelles. Altrimenti non sarebbe possibile spiegare come mai la direzione del TÜV, l’organizzazione addetta al controllo periodico delle automobili in circolazione in Germania, possa oggi accusare il governo di Berlino di averle impedito in passato di andare a fondo nella faccenda del software. “I ministeri competenti ci fecero sapere a suo tempo che si trattava di un aspetto tecnico protetto dal segreto dell’industria automobilistica e che la cosa non ci doveva riguardare”.
Basta questo particolare per capire che anche il governo di Berlino era stato sempre molto più al corrente della falsificazione dei dati delle emissioni di quanto oggi sia disposto ad ammettere. Qualcuno è anche riuscito a trovare una lettera inviata nel 2012 all’ora commissario europeo per l’industria, Antonio Tajani, in cui un manager di una fabbrica di componentistica auto lo informava dell’esistenza di un software “Cycle Beating” in grado di registrare che l’auto veniva sottoposta a un “Homologation Cycle Test”. A quanto pare, Tajani non prese la cosa molto sul serio limitandosi a scrivere a sua volta una lettera piuttosto generica ai ministri europei dei Trasporti invitandoli a rafforzare i controlli nel settore auto.
Un altro imbroglio, stando all’esperto tedesco Ferdinand Dudenhöffer, sarebbe anche lo stratagemma con cui la Volkswagen con un filtro da 10 euro e con meno di un’ora di lavoro si appresta, con il beneplacito del governo di Berlino, a mettere le auto Volkswagen con motori diesel di 1,6 e 2 litri (1,2 milioni di auto in Europa) in grado di rispettare le norme EU sull’emissione di gas di scarico. “Un imbroglio, perché l’intervento tecnico influenzerà negativamente il consumo e la prestazione del motore”. In altre parole, la Volkswagen scaricherà il costo dei suoi errori sugli automobilisti europei perché per quanto riguarda gli USA si troverà di fronte al deciso no delle severe autorità americane.