Balletto e marionette: antitesi o sintesi di un concetto di movimento? È la domanda che ci pone Duda Paiva nella sua coreografia “The Garden”. Lo spettatore si trova di front cinque ballerini (nella prima del 3 maggio: Youn Hui Jeon, Marioenrico d’Angelo, Kim Tassia Kreipe, Eleonora Pennacchini e Randolph Ward) che scoprono la natura nei luogo più impensati. Tutto fiorisce intorno a loro, prende vita e cerca di espandersi. Eppure, ad un tratto, senza alcuna ragione apparente, la natura diventa soffocante e limitante, quasi aggressiva… fino ad esplodere. La razionalità umana non si interroga sul perché, cerca solo di attutire le conseguenze, riportare l’ordine e passare oltre. Quasi fosse lì a beffeggiarsi di questo piccolo intermezzo. Ma la natura non si fa mettere da parte e prendere vita, o meglio forma. Un conglomerato di erbe, dalle fattezze umane, cerca di emulare i gesti e le abitudini umane, cerca di vivere o sopravvivere nel nuovo mondo, nelle nuove strutture. Tuttavia le nuove considerazioni non permettono la sopravvivenza perché la natura non può rimanere soffocata dall’inadeguatezza umana che considera tutto per dato o meglio, dovuto. I ballerini, da meri interpreti, hanno dovuto prendere in mano la situazione, gestire la natura, mettersi in discussione e scoprire se stessi attraverso la vita creata di un oggetto inanimato. Il tutto è stato arricchito dallo sfondo musicale, tra cui è stato possibile ascoltare alcuni capolavori di Roberto Galimberti, Antoine Forqueray, Roberto Murolo ed Edward Elga. Mark Baldwin invece, coreografo di “Not a cloud in the Sky”, ha scelto di presentare al pubblico di Saarbrücken la sua prima ispirazione della Quarta Sinfornia di Gustav Mahler. La polifonia di quest’opera ben si adatta alla rappresentazione di cosa avviene nell’etere quando il cielo è sereno… L’aria diventa protagonista: il cielo si espande, si fa stravolgere dal vento, dai temporali (magistrale, seppure breve, l’interpretazione di Francesco Vecchione) ed accoglie il sole che fa risplendere l’universo. Eppure il giorno deve trascorrere, la luce che da vigore e forza diventa debole e deve rigenerarsi… spetta all’atmosfera prendersene cura, permetterle di riprendere le forze per permettere al mondo di continuare ad esistere ed evitare che la nebbia e l’oscurità prenda possesso. Turbinio di venti, di emozioni e di momenti con salti ed estensioni di nota. Nota di particolare pregio va a Ramon A. John, etereo più che mai. Coreografie di terra e di aria, che mandano allo spettatore un chiaro messaggio: la sopravvivenza, la purezza e l’essere intatto della natura è nelle mani dell’uomo (e della donna)… ogni piccola azione ha conseguenza su un progetto ben più grande. Due ore piene di spettacolo avvincente ed intrigante: il pubblico ha apprezzato coreografie, costumi, musica ed interpreti regalando a tutti un lungo e fragoroso applaudo. Ci auguriamo solo che il messaggio non rimanga nell’anticamera del cervello e che diventi un gesto naturale.
Abbiamo incontrato Eleonora Pennacchini, ballerina di origine romana, interprete di entrambe le produzioni.
Come sei arrivata in Germania?
Stavo facendo un apprendistato con una compagnia a Birmingham ACE DANCE and Music che si occupava di un misto tra danze africane e danze caraibiche. Un mix culturale molto vario e interessante. In Inghilterra esistono molte Black Companies che hanno almeno il 60% dei ballerini di colore e io ero una dei due “bianchi”. Questo contesto mi ha arricchito molto dal punto di vista culturale e professionale perché, fino ad allora, non avevo mai lavorato in ambienti così multiculturali. È stato molto interessante. Per un problema al ginocchio non ho più potuto lavorare con loro e ho cominciato a guardarmi attorno. Ho visto l’audizione su Dance Europe nell’Agosto 2012. Una delle ragazze della compagnia aveva avuto dei problemi al ginocchio, per cui cercavano una sostituzione veloce. Ho mandato il curriculum e ho ricevuto risposta poco dopo, è andato tutto bene tant’è che ho potuto iniziare a Settembre dello stesso anno. Devo ammettere che vivere in Germania mi piace e trovo Saarbrücken molto a misura d’uomo: trovi tutto quello che ti può offrire una grande città dal punto di vista culturale, di assistenza sanitaria etc. ma tutto raggiungibile facilmente, spesso a piedi o in bici. È vero che ancora non parlo bene la lingua (e parlare inglese o italiano nella compagnia non aiuta molto su questo fronte), ma questo intacca la relazione creata con questa nazione. Devo dire che ho trovato i tedeschi molto meno freddi di quello che mi aspettavo: certo non c’è la passione italiana, ma c’è un profondo rispetto e una correttezza ammirevole. Infine c’è una piccola cosa che mi rende Saarbrücken veramente simpatica: è una città in cui vedi ancora il trascorrere delle stagioni il che mi riporta un po’ indietro nel tempo.
Germania/Inghilterra: da dove nasce la decisione di formarsi e operare all’estero?
Mi sono diplomata all’Accademia nazionale di Danza e volevo esplorare l’ambiente della danza contemporanea che, purtroppo, in Italia non offre molte possibilità. Nonostante il mio indirizzo sia stato contemporaneo la mia formazione è modern (Cunningham, Graham). Non è, purtroppo, quel tipo di danza che ti serve per fare audizioni e riuscire ad entrare nei teatri. La maggior parte dei ballerini italiani che lavorano all’estero hanno studiato all’estero. Io per esempio ho studiato al Trinity Laban in Inghilterra: a 21 anni mi sono spostata a Londra per studiare lì 3 anni e poi ho fatto un anno alla School of Contemporary Dance di Leeds. Dato che ho lasciato l’Italia otto anni fa non so quale sia la situazione al momento; sicuramente ci sono meno offerte di lavoro nel mondo della danza contemporanea.
Sei l’immagine del poster di Puppet and Poliphony: come si è svolto il tutto?
La decisione è stata presa dalla drammaturga Anja. L’idea di base era quella di avere una persona che fosse presente in entrambe le produzioni. Eravamo in tre a fare il casting fotografico: due ragazze e un ragazzo. Alla fine, penso che il gioco dei capelli nel salto siano stato un argomento determinante: è come un riflesso prolungato del movimento che esce dalla pura immagine bidimensionale.
Come vedi tu personalmente questi due pezzi?
“The garden” era un pezzo già esistente mentre “Not a cloud in the sky” era una prima mondiale. Il processo di avvicinamento ai pezzi è stato diverso: per il primo avevamo un video che potevamo guardare, mentre non avevamo idea di cosa ci aspettasse nel pezzo di Mark Baldwin. Personalmente, avendo studiato a Londra, interpretare un pezzo di Marc Baldwin per me è stato un sogno che è diventato realtà. Ho conosciuto Duda attraverso il pezzo “Bastards” e mi è piaciuto per cui ho pensato di fare l’audizione anche per il suo pezzo. Ho avuto subito il ruolo della persona che doveva interagire maggiormente con il pupazzo, Daniel. Per due giorni sono stata da sola con il pupazzo per provare un modo di relazionarmi a lui: Per un ballerino non è semplice lavorare con un pupazzo, perché manca la forma mentis: è necessario anticipare i movimenti del pupazzo e reagire agli stessi. È stata un’esperienze molto interessante pe me. “Not a cloud in the sky” è un pezzo tecnicamente molto difficile perché è incentrato sulla dimostrazione delle tecniche e della abilità di un danzatore. La sfida, in questo caso è come riuscire a combinare la presenza scenica con le sfide tecniche.
Da quando sei nella compagnia hai fatto diversi pezzi, sia da ballerina che da coreografa. Quale è quello che, ad oggi, ti da più emozioni?
Probabilmente questa ultima serata perché una sfida che mi permette di mettere in scena le mie conoscenze ma anche di esplorare i miei limiti e conoscere nuovi aspetti. Un posto nel mio cuore spetterà, tuttavia, a “Liebe schwarzweiß” di Maggie Donlon è stato il mio battesimo di fuoco sul palco di Saarbrücken.