Un milanese si sposta in Inghilterra perché 24 anni fa è stato nominato direttore musicale dell’opera nazionale gallese. Per me il lavoro di direttore musicale è un lavoro molto serio e difficile: non è semplicemente andare lì e dirigere, bensì prendersi la responsabilità del coro, dell’orchestra, dell’organizzazione etc. per cui era necessario un trasferimento. Dopo qualche anno ho incontrato la mia futura moglie e mi sono creato una famiglia con due figli che adesso hanno 18 e 20 anni. Adesso non sono più direttore musicale e con i figli già grandi riesco a tornare in Italia più spesso per le vacanze. Non credo che in un futuro ci sia un ri-trasferimento in Italia.
Sono nato e cresciuto in Italia dove ho anche studiato ed iniziato a lavorare. Poi, però, tutta la mia carriera è avvenuta all’estero. In Italia ci sono ritornato diverse volte: a Santa Cecilia, alla Scala, a Torino, a Venezia, al Festival di Pesaro e anche a Palermo. Nel 2015 sono stato a Genova per un concerto e nel corso dell’anno dirigerò anche due titoli al Teatro La Scala (Giugno/ Luglio). Non è che in Italia non ci sia lavoro, ma è che ci si arriva sempre con il fiato alla gola per vari motivi organizzativi, politici e anche di carattere. Molte volte ho ricevute richieste last minute che non ho potuto prendere in considerazione perché ero già impegnato con altri eventi. Sono fisicamente fuori dall’Italia ma anche dal modo di lavorare dell’Italia: so che la situazione negli ultimi anni non è stata rosea, mentre all’estero mi pare che la situazione sia più positiva. Mi ritengo fortunato perché posso andare in Italia a lavorare, ma, non essendo un lavoro continuativo, posso evitare problemi burocratici, caos etc. Devo aggiungere però che l’Italia con il suo modo di vivere e di interpretare la vita mi manca.
Io ho iniziato con la musica molto presto per delle ragioni strane. È stato un caso perché i miei genitori non sono musicisti e nemmeno i miei nonni: uno era muratore e uno falegname. Le cronache dicono che da bambino ero abbastanza introverso: mi piaceva la musica e mi hanno mandato a lezioni di musica fin dagli anni dell’asilo. I miei genitori hanno fatto lo stesso anche con mio fratello e mia sorella fanno musica. Io sono quello che sono, mia sorella insegna musica e mio fratello è un violinista concertista che vive a Mainz. Per uno caso strano tutti e tre i figli sono musicisti: ci sarà qualcosa nel DNA. Sono nato come pianista ed ero bravo: avevo un’ottima capacità di leggere a prima vista la musica. Questo mi ha permesso di fare un sacco di musica da camera e di suonare con gli altri. Gli studenti alla scuola di musica, clarinetto fagotto etc. mi chiedevano di accompagnarli a diversi concerti o di aiutarli a prepararsi per gli esami, perché il pianista serviva sempre. Nel corso degli ani ho fatto tante cose: mi sono interessato alla musica da camera e dentro di me diventava sempre più forte l’interesse per la creazione del suono, non solo attraverso il pianoforte, ma in generale. Ho iniziato il corso di direttore al conservatorio di Milano e, una cosa tira l’altra, ho iniziato a vincere un paio di concorsi e poi a lavorare come direttore.
Si ricorda ancora della sua prima volta a teatro come spettatore e delle emozioni provate?
Mi ricordo perfettamente quando sono stato all’opera. L’anno preciso non me lo ricordo, ma credo che fossero i primi anni 70. Sono andato a vedere “Un ballo in maschera” di Verdi al Teatro La Scala. La scuola di musica in cui stavo studiando aveva avuto dei biglietti gratuiti per andare alla prova generale. Avevo 11-12 anni al massimo. Mi ricordo che ero seduto in platea a guardare questo enorme sipario e a il direttore. Con l’inizio della musica mi sono innamorato dell’opera, del modo di cantare e di trasmettere queste emozioni.
Io sono più conosciuto come direttore d’opera e devo riconoscere che fare opera al giorno d’oggi è molto più difficile che dirigere un concerto. In un concerto le interazioni sono con il coro, l’orchestra e a volte il solista, e ci sono molto meno imprevisti. In un opera invece, ci sono molti più imprevisti. Capita che un cantante comunichi il giorno dello spettacolo che non può cantare, arriva un altro e con prove di 10 minuti per ruoli di ore è sempre difficile. Non parlo dal punto di vista di vista tecnico, ma piuttosto nel complesso, perché quando si è provato con un cantante, si è organizzato il tutto musicalmente per mettere in risalto le qualità di quel cantante e poi ne arriva un altro con una musicalità diversa. Non si parla di bravo e non bravo, e d’un colpo, tutto il lavoro fatto fino ad allora con l’orchestra diventa inutile. Ci sono molti più compromessi. Nell’opera i registi a volte, lavorano con opere che non sono necessariamente le più rispettose della musica e questo è un grande problema. Anche se estrai dall’orchestra il suono migliore, anche se i cantanti sono fantastici, se gli occhi vedono una cosa che non funziona anche il risultato complessivo ne risente. Quando funziona è fantastico invece.
È stato bellissimo lavorare con lui perché è una persona veramente innamorato della musica. Ha iniziato ad ideare la sua scenografia e il suo modo di presentare i personaggi basandosi sulla musica di Verdi. Non c’è stato assolutamente alcun problema. Certo io, come persona, posso avere delle idee leggermente diverse o anche un bel po’ diverse, ma ho nottato che se il regista non arriva alle prove pensando di spiegare il pezzo come visto da lui, bensì con l’intenzione di prendere ispirazione dalla musica la messa in scena, moderna o meno, conta solo fino ad un certo punto, perché se la messa in scena rispetta e valorizza quello che la musica dice, qualsiasi rappresentazione aumenta il valore dell’opera. Nel 2014, per esempio, tanto per fare un unico esempio a Bruxelles ho diretto il Rigoletto per la regia di Robert Carsen che ha ambientato l’opera in un circo. Molte persone hanno avuto da ritirare ma io devo ammettere che per me è stata un’esperienza bellissima: concordo sul fatto che non si trovano da nessuna parte riferimenti sul fatto che Verdi avesse ambientato il suo Rigoletto in un circo. L’ambientazione prevista da Verdi era alla corte di Mantova. Nella messa in scena di Carsen però le relazioni tra i personaggi erano quelli giusti: il pathos che ne veniva fuori era quello ispirato da Verdi; il messaggio dei valori che Verdi promuoveva erano presenti, anzi ancora più messi in evidenza. Ho condotto opere, invece, con messe in scena di altri registi con ambientazioni assolutamente classiche ma assolutamente disastrose perché, purtroppo, il regista non capiva niente della musica.