L’uomo si chiama Patrizio e quello di fianco a lui, quello a cui Patrizio tiene la mano, è suo padre. Alla fine di questa storia, suo padre non ci sarà più. Queste sono le sue ultime 56 ore di vita. Chissà cosa avrà pensato Patrizio, quando suo padre Marcello ha iniziato a sentirsi peggio del solito, quando i dolori sono diventati violenti e non c’era verso di attenuarli lì in casa? Chissà cosa si sarà aspettato di trovare recandosi in un pronto soccorso italiano? Forse pensava che qualcuno si sarebbe occupato di suo padre, che gli avrebbero per lo meno alleviato il dolore, che ci sarebbe stata assistenza, se non proprio un equipe, almeno un infermiere che facesse qualcosa in un luogo discreto? Forse pensava che, in un’importante struttura ospedaliera del centro Italia, i malati terminali, nelle loro ultime ore di vita, venissero accolti con quella pietas e quell’humanitas che si tributa a chi sta per partire per sempre? Ma qui siamo al San Camillo di Roma e da queste parte le cose vanno diversamente.
Mafia Capitale non è solo un titolo sui giornali, è piuttosto qualcosa di putrido che sgocciola inesorabilmente sulla vita quotidiana dei cittadini della capitale e che il 22 Settembre scorso ha raggiunto e imbrattato anche la vita del giornalista Patrizio Cairoli. Lui ha aspettato alcuni giorni e dopo i funerali del padre, dopo il necessario momento di silenzio e raccoglimento, ha trovato le parole per raccontare la sua storia e lo ha fatto con una lettera pubblica indirizzata al Ministro della Salute Lorenzin. L’ambulanza su cui viaggiava suo padre è arrivata in pronto soccorso attorno alle cinque di mattina. Lui, Patrizio, riuscirà a rivedere il Marcello solo durante le visite di mezzogiorno.
Nonostante tutti avessero capito che era in fin di vita, lo hanno parcheggiato nella sala dei codici verdi e bianchi dove finiscono i casi meno urgenti, dove ci si reca in pronto soccorso quasi più perché non si sa mai, che non per necessità o urgenza. E‘ stato su richiesta insistente del figlio che al padre hanno concesso interventi palliativi, una dose di morfina per soffocare il dolore fisico. Ma dell’altro dolore non si è occupato nessuno e non perché non avessero capito cosa stesse succedendo, semplicemente non pareva riguardarli, quasi il dolore degli altri, in un ospedale, non fosse affar loro. In maniera brusca, con estrema brutalità, gli hanno detto che era questione di ore.
Poi li hanno lasciati lì, in mezzo al caos, nella promiscuità degli sguardi degli altri, senza preoccuparsi dei loro affetti, delle ultime parole di un padre al figlio, dell’ultimo saluto al genitore morente. E allora Patrizio decide di raccontare il suo calvario e la sua denuncia diventa un caso, uno di quelli che getta una luce negli angoli bui e ci mostra come stanno realmente le cose. Scrive il giornalista: "Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso.
Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati; persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizze e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato.
Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro". Mentre suo padre moriva, alla presenza della sua famiglia, con Patrizio c’erano anche la sorella e la mamma, a pochi metri da loro, un paio di donne anziane malate di Alzheimer, si spogliavano suscitando le risate fragorose e festanti di altri pazienti in attesa di cure. La famiglia ha vegliato Marcello scacciando tutti quelli che si avvicinavano per vederlo morire, pregando gli altri di regalare loro un momento di pace.
Poi un’infermiera ha portato un paravento ed è tutto quello che hanno avuto. Durante le visite, un infermiere ha indicato Marcello, lo ha fatto senza crearsi alcun problema e ha suggerito al medico di non fermarsi, che tanto "quello è già destinato". Poi infermiere e medico sono andati più in là e nessuno si è avvicinato. Dopo la sua lettera, il Ministro ha inviato gli ispettori al San Camillo.
Gli ispettori faranno il loro lavoro e se saranno sinceri, dovranno dirci ciò che già sappiamo: il caso di Patrizio non è isolato, non è una goccia amara in un fiume limpido, è solo un caso che ha avuto la fortuna di essere raccontato, uno tra i tanti. Lo testimoniano, tra le altre cose, quelle centinia di testimonianze che via messaggio hanno espresso solidarietà a Patrizio e che hanno anche raccontato di innumerevole persone costrette ad assistere la fine dei propri cari in questo modo indegno. Mi immagino un televisore appeso a qualche parete in quella sala di pronto soccorso. Mi immagino l’apparecchio acceso sulla testa dei pazienti in attesa, quando Patrizio arriva con suo padre.
Mentre Marcello sta morendo, in onda c’è un telegiornale. Si sente il Ministro Lorenzin spendere il suo tempo e i nostri soldi a scaricare il barile per le responsabilità sulla disastrosa campagna del Fertily Day. Poi Patrizio sente la voce del Ministro parlare di ponte sullo stretto, di quanto lei sia convinta che sia un’opera capace di rilanciare la nostra economia. Ora che i problemi del mezzogiorno sono tutti risolti, ora che abbiamo tutti i fondi che vogliamo, grazie alla grande politica del suo Governo, il Ministro pensa che costruire un ponte faraonico sia proprio una bell’idea. 
Patrizio allora si alza, non chiede il permesso a nessuno, attraversa la stanza, sale su una sedia mezza rotta e spegne il televisore. Salutare il proprio padre in quelle condizioni è già uno strazio infinito, sentire le sciocchezze festose di una delle responsabili di quella miserabile sua condizione, è qualcosa che proprio non può sopportare. E noi con lui.