È già la terza volta che torniamo sul personaggio Nostradamus, nel frattempo sono arrivate lettere, telefonate, persone che contestano, che approvano. Vuol dire, insomma, che il personaggio ancora oggi è interessante, fa discutere. Chi era davvero Nostradamus? Quanta verità, quanta fantasia e quanta interpretazione a posteriori c’è in quelle quartine, e perché sono diventate così importanti per re, regine, cardinali, nobili, artigiani, gente comune? E perché ancora oggi giornali popolari le tirano fuori ogni tanto? Solo per fare un po’ di sensazione? Cosa c’è scritto veramente in quei versi?
Predicono davvero il destino o sono solo fandonie? Ma poi, c’è davvero il destino, come qualcuno sostiene, o sono anche quelle fandonie? Domande alla quali non possiamo certo rispondere qui con un modesto articolo di giornale. Possiamo però riprendere il filo della vita di Michele. Lo abbiamo visto, l’ultima volta, entrare a Montpeiller in piena epidemia di peste, mente tutti ne fuggivano, compresi medici e studenti, i quali ultimi, à la cloche de bois, “alla campana di legno”, come dicono i francesi, cioè senza pagare affitto e debiti. Lo abbiamo visto, a Montpeiller, ad Aix, poi ad Avignone, seguire il virus, fianco a fianco con la signora falciuta, la Morte, spesso precedendola e beffandola con certe compresse di erbe di sua invenzione, che erano verdi, e non del colore dei confetti, come sostiene qualcuno. Michele era medico particolare: l’unico che girava tra i moribondi senza scafandro e senza aglio in bocca, cercando per i malati un po’ di sollievo. Non solo era presente, ma si dava da fare, provava, cercava soluzioni.
E non solo con le compresse di cui sopra. Diversamente dai suoi colleghi, i quali, per non avvilire la dignità della professione, si guardavano bene dal prendere lo scalpello in mano, Michele operava da sé tagli e incisioni, e tutti i lavori manuali di spettanza del cerusico. Lo abbiamo visto poi alla corte di Francia, astrologo e precettore di Enrico II di Valois. Lo abbiamo infine lasciato nel villaggio di Solon, in Provenza, solitario anche se visitato da più persone che volevano da lui oroscopi e chiaroveggenze. Che Michele non faceva volentieri; preferiva di tanto in tanto scarabocchiare una di quelle quartine che, nella raccolta chiamate “Centurie” sarebbero poi passate sui tavoli di politici e generali.
Ma quali quartine, perbacco? Direte voi. Se ne parla sempre, di queste quartine, ma non si vedono mai! Eccone allora una, presa un po’ così, quasi a caso. La trentacinquesima della Prima centuria:
Giovin lione il vecchio abbatterà
In campo chiuso e singolar tenzone.
In gabbia d’or le luci spegnerà,
due classi una, morir morte crudele.
Quando Enrico di Valois lesse la quartina diventò pallido come un morto. Prese carta e penna e scrisse di suo pugno a Claudio di Savoia, conte di Tenda e governatore di Provenza. Nostradamo deve venire assolutamente a Parigi, ordine del re.
E Michele ci arriva, a Parigi, il 14 luglio 1556. Il 14 luglio non era ancora festa nazionale in Francia; era ancora un giorno qualsiasi. La rivoluzione francese non era ancora scoppiata. Il mondo moderno non era cominciato. Il ’68, i chansonnier, gli esistenzialisti vestiti di nero, i filosofi, i maitre a penser, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir; tutta questa gente per fortuna non c’era ancora. Parigi era una città silenziosa, piena di aria fresca, dei cinguettii delle cince e dei canti delle giovani lavandaie che, scosciate, sbattevano i panni alla Senna, mentre i giovanotti segretamente le osservavano dall’alto dei ponti.
Erano solo tre le carrozze che a quell’epoca girano per la città: quella della famiglia reale, quella di Diana di Potiers, amante del re, e quella di Raimondo di Laval. Con la prima, Michele venne condotto a corte. Enrico lo aspettava al Louvre (che all’epoca non era ancora un museo), molle sulle lunghe gambe da uccello di palude, tutte incalzate di bianco e rosa, col suo abitino da corte e col testone posato sul colletto bianco a cannoncelli piegati e inamidati. “Voi avete previsto la mia morte, signor di Nostra Donna?”, gridò con la sua voce da gallina non appena lo vide. “Non io, le stelle, il libro dei numeri, sire…”
Tre anni dopo, il primo luglio 1559, a la Bastille st. Antoine, durante un torneo, il conte di Montgomery (leone giovane) infilò la lancia nell’occhio destro di Enrico II (leone vecchio) che portava un elmo d’oro a celata (gabbia). Enrico morì sul colpo, i funerali di Stato si svolsero la settimana a venire. E gli anni passavano. E mentre gli anni passavano, le profezie aumentavano, e si avveravano con inesorabile puntualità. La gente le temeva. Man mano che le quartine apparivano, chi poteva le leggeva con avidità. Oggi avrebbero più successo di un volume di Harry Potter.
Quali profezie? Direte voi. La congiura di Amboise, la cospirazione di Lione, la morte di Francesco II… Quest’ultima ad esempio, vogliamo raccontarla. Durante una cerimonia religiosa il 17 novembre 1560 il giovane Francesco II fu colto da un malore. Oggi diremmo una sincope precoce. L’ambasciatore della Serenissima Repubblica di Venezia, Da Michieli, scrisse al Doge. “Eminenza, i cortigiani presenti ricordano la quartina trenta e nove della Centuria decima e sussurrano…”. L’ambasciatore del Granducato di Toscana, Tornabuoni, scrisse a sua volta al Duca, in data 3 dicembre 1560: “ Eccellenza, la sorte del re Francesco è incertissima.
Nostradamo, nella quartina che porta il numero di trenta e nove della centuria Decima dice in questo mese la morte inopinata di due giovani della famiglia del re”. Il 5 dicembre seguente morì Francesco II e, un paio di settimane dopo, il suo amico d’infanzia, il marchese di Beaupreau, figlio del principe De La Roche Sur L’Yon.
Ma, accidenti! mi accorgo che ancora ho calcolato male, anzi malissimo, gli spazi dell’articolo, che diventa più lungo del previsto. Allora devo ancora scusarmi con i lettori ad appellarmi alla loro pazienza. La prossima volta speriamo davvero di finire.