Indubbio che il quasi ottantottenne Presidente della Repubblica abbia cumulato, nel corso del suo mandato presidenziale, due primati: è stato il primo ex comunista ad andare al Quirinale e il primo ad acconsentire ad una rielezione, benché avesse sempre declinato tale prospettiva per motivi anagrafici. Qualcuno dice anche che sia stato il primo a violare la Costituzione, per convinzioni politiche, ma pure per quell’amor di Patria che, dopo la bocciatura parlamentare di Franco Marini e di Romano Prodi, lo ha spinto ad accettare il secondo incarico che non avrebbe voluto, ma a cui, come ha sottolineato, “non si è potuto sottrarre, vista la richiesta pressante arrivata da un ventaglio eterogeneo di forze politiche”, cioè da Pd, Pdl, Lega e Scelta Civica. Tanto che, a rielezione avvenuta, ha auspicato che “tutti sappiano onorare i loro doveri concorrendo al rafforzamento delle istituzioni repubblicane. Dobbiamo guardare tutti alla situazione difficile, ai problemi dell’Italia e degli Italiani, al ruolo internazionale del nostro Paese”. Un invito alla responsabilità rivolto ai politici, poi ripetuto, dopo il giuramento di fedeltà alla Costituzione, nel tradizionale discorso ai parlamentari.
Una relazione, la sua, relativamente breve ma stupefacente per la sincerità e l’amarezza con le quali ha dichiarato di non aver potuto declinare l’appello rivoltogli “per quanto potesse costarmi l’accoglierlo, mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del Paese” sottoposto ad una “lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e d’irresponsabilità”, tanto da condannare “alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento”. Con la conseguenza di non dare, in un momento di crisi economica, di recessione e di un crescente malessere sociale, soluzioni soddisfacenti “a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle Istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti”, proprio perché hanno sempre prevalso “contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”. Un incentivo, il suo, a non “sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile, per sopravvivere e progredire, la democrazia e la società italiana”, perché “la politica non è uno stato di guerra di tutti contro tutti, è un modo di governare la cosa pubblica; come tutti gli Italiani, sono stanco di ricordarvelo; voi non rappresentate qui le vostre fazioni, e nemmeno i vostri elettorati, ma la Nazione intera”. Che, oggi, ha bisogno di quelle riforme, sempre promesse e mai fatte. Le elenca, il Capo dello Stato, ritenendo “imperdonabile” la mancata modifica della legge elettorale che causa l’attuale difficoltà a formare il nuovo Governo; nonché la riduzione delle Istituzioni locali che incidono notevolmente sul debito pubblico, anche a causa delle corruzioni e del lassismo che spesso vi regnano.
Inaccettabile, per Napolitano, pure “il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte ad infrangere il tabù del bicameralismo paritario”. Carenze dovute all’impossibilità di arrivare ad accordi, se non c’è intesa tra maggioranza ed opposizione, la sola che può “far vivere un Governo oggi in Italia”, e dare “soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità”. Non usa mezzi termini, il Presidente, quando sottolinea che “l’orrore per intese, alleanze, mediazioni e convergenze è segno di regressione”, se nessun partito vince le elezioni o ottiene la maggioranza assoluta. Non a caso ricorda che “in tutti i Paesi d’Europa governano delle coalizioni, talvolta anche tra forze in competizione, o perfino avverse tra di loro”. Altrimenti non si riesce a ridurre i costi pubblici e ridare trasparenza e moralità alla politica, alimentando così l’insoddisfazione e la protesta verso i partiti ed il Parlamento, che hanno spinto alla notevole astensione dal voto registrata a febbraio e, soprattutto, all’adesione al Movimento di Grillo, cioè a quelle “nuove pulsioni eversive” che certo non aiutano a risolvere i problemi nazionali. Per cui, o i parlamentari cambiano tattica, o non esiterà “a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Cioè, sciogliere il Parlamento ed indire nuove elezioni.
Un discorso ineccepibile che ha spinto l’Osservatore Romano, a fargli gli auguri e a rilevare la necessità di “supplire all’incapacità fin qui dimostrata dai partiti”. Ma che ha anche suscitato, mentre lo teneva, una continua serie di applausi dei presenti, grillini esclusi, benché fossero dirette proprio a loro le frequenti sferzate presidenziali. Gian Antonio Stella commenta il fatto sul Corriere della Sera del 23 scorso, rilevando, giustamente, che “proprio quelli che hanno fatto arrabbiare il nonno saggio non si accontentano di ascoltare la ramanzina in silenzio. A capo chino. Ma accolgono ogni ceffone in faccia, guancia destra e guancia sinistra, come se fosse rivolto ad altri”. In effetti chi ha seguito l’avvenimento in televisione si è stupito nel vedere tutti gli esponenti dei diversi partiti andare in delirio e sprofondarsi in inchini e baciamano, elogi e salamelecchi. Ai quali Napolitano reagisce invitandoli a non cedere “ad alcuna auto indulgenza”. Cui, però, si sottomette egli stesso, dato che evita di rilevare che, tra le spese pubbliche, c’è anche l’enorme costo del Quirinale che potrebbe chiedere di dimezzare. E tace sulla causa delle attuali ristrettezze economiche dovute all’eccesso di fiscalizzazione operato dal “tecnico” Monti, nominato Premier. Che ha solo messo le mani nelle tasche dei cittadini.