Siamo diventati una società senza vicinato, senza prossimo e senza aiuto reciproco. L’individuo solitario non si fida dei soccorritori, non si fida delle forze preposte all’ordine, preferisce difendersi con la fuga.
Del resto, gli agenti preposti all’ordine ti fanno sentire colpevole ogni volta che sei costretto a denunciare qualcosa e spesso ti intimidiscono insistendo sui pericoli a cui potresti essere esposto, facendo la denuncia. Una sorta di sciopero ad intervenire si manifesta quando si scusano delle molte norme e delle possibili punizioni in cui potrebbero incorrere per un eccesso di intervento e quindi non controllano i racket degli accattoni invadenti, dei guardiani di strada che promettono danni, delle persone che si apprestano a diventare la manovalanza della malavita. Un viceprefetto annuncia in televisione che uno straniero omicida, già carcerato per spaccio, non poteva essere espulso perché, non avendo i documenti, non era reperibile il Paese a cui avrebbe dovuto essere riconsegnato.
Nella scuola i professori temono di intervenire nei confronti di bulli e bulletti, provocando così un’abitudine alla prepotenza e una infelice sopportazione dei prepotenti.
L’elenco potrebbe essere lungo, ma fermiamoci al caso più scandaloso: l’indifferenza sacrilega con cui i giudici senza rimorsi di coscienza decidono di rimandare un processo dopo venti anni d mancato giudizio. Le “brioches” di Maria Antonietta in confronto sono un piccolo peccato veniale.
Da questo male il tessuto sociale è devastato. Una volta, quando c’era poco Stato, non esistevano i servizi sociali, la vita civile confidava nel “vicinato”, necessario nella collaborazione dei lavori di campagna, nell’assistenza ai malati, e perfino nella carità di quelli che erano disponibili a vestire i morti, esempio estremo di collaborazione pietosa ed insieme amorosa.
Non c’è più la comunione dei buoni a difendere il tessuto sociale. Tutti solitari ed isolati ad aspettare uno Stato che non c’è e che, comunque, non potrebbe mai fare tutto.
Non eravamo così: c’è stato un momento nella nostra storia in cui lo Stato si disfece per follia ed incapacità dei suoi dirigenti. In una società senza più Stato, dominata non più dalle forze dell’ordine, ma dalle forze del disordine, bastò che un giovane carabiniere si offrisse osteggio per salvare le persone che gli erano state affidate perchè risorgesse la comunità, la solidarietà nei valori civili, la resistenza contro il male, in una parola, la società civile e lo Stato. Settanta anni fa.
Gesù ha riassunto i Comandamenti: “Amerai il Signore Dio tuo” e “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, ed il prossimo non era il bambino adottato a distanza, che non conosceremo mai, ma il nostro condomino, che muore da solo perché nessuno lo conosce. È l’uomo ferito e sanguinante che il samaritano incontra per caso sulla via. Non abbiamo più prossimo.
Questa condizione pesa come una grave colpa nella nostra società e riconosciamo che non può esserci nessuna legge che possa riparare, nessuna riforma che possa correggere, nessun programma di governo che possa rimediare, nessun Presidente di Repubblica che possa sopperire allo sfarinamento della società civile ed all’insorgere della guerra solitaria di tutti contro tutti.
Cosa fanno i cattolici?
Sia nel primo Risorgimento, sia dopo la catastrofe degli anni ’40 i cattolici sono stati un elemento importante della coesione morale di questo Paese, costruendo sulla loro innata carità sociale, una carità di Patria, importante per l’unità del nostro Paese. Ma in questa crisi cosa fanno i cattolici in politica per combattere la solitudine? Nulla.
P.S.: Papa Francesco nel suo linguaggio semplice, ma ispirato, ha usato una parola desueta e strana per definire un dovere morale dei cattolici: “Custode e custodire”.
Ha detto che bisogna custodire il creato, che bisogna custodire se stessi, che bisogna custodire quelli che ci sono vicino, che bisogna custodire i poveri, gli ultimi, i deboli. Una parola che avevamo dimenticato.
Mi sono domandato dove Papa Francesco avesse trovato questa parola. E mi è venuto in mente il racconto della Genesi, quando Dio chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?”. E Caino risponde, sapendo bene quello di cui stava parlando: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
La risposta è implicita: sì, sei tu il custode di tuo fratello e se non l’hai custodito, lo hai ucciso.
E questo mi ricorda un vecchio modo di usare la parola “custodire”, quando si diceva che una madre che lava e veste un figlio per prepararlo a qualcosa, lo custodisce, nel senso che lo accudisce.
Ecco un altro aspetto, amoroso questa volta, di “custodire”.
Non eravamo forse una volta abituati a pregare: “Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me…”? E mi accorgo con stupore e dolore che illuminare, custodire, reggere e governare è un programma politico a cui i cattolici dovrebbero sentire il dovere di adempiere.