Da oltre 90 anni il teatro nazionale slovacco di Bratislava ricopre una funzione primaria nella storia musicale europea: è stato il luogo in cui nomi come Lucia Popp e Peter Dvorský hanno praticamente compiuto i primi passi nel campo della musica lirica. Tra i momenti più importanti della stagione 2014/2015 va annoverata certamente la prima messa in scena de “I gioielli della Madonna” del compositore italo-tedesco Ermanno Wolff-Ferrari che avrà la sua prima il 29 maggio. La direzione è stata affidata a Manfred Schweigkofler, ex direttore artistico del Teatro di Bolzano, che dal 2012, oltre ad essere “director in residence“ della compagnia di danza ungherese Experidance si dedica a diversi progetti culturali ed è anche coordinatore per l’Alto Adige presso l’Expo di Milano 2015. Lo abbiamo incontrato per voi.
Sicuramente dalla passione di Friedrich Haider, il direttore artistico dell’opera slovacca, che da tanti anni sta seguendo il programma di Ermanno-Wolff Ferrari. Quando mi propose di dirigerla mi trovavo proprio a Napoli e mi sembrava un’idea molto bella quella di portare Napoli, una città che amo, a Bratislava. Sarà per me la prima volta che lavorerò a Bratislava. La preparazione dell’opera è avvenuta un po’ come avviene in tutte le parti del mondo: si sono selezionati i cantanti (che a Bratislava sono cantanti che lavorano fissi nell’opera nazionale), si sono preparati i bozzetti di scenografie e costumi e poi ci sono stati circa due mesi di prove. È trascorso oltre un anno e mezzo da quando parlammo per la prima volta del progetto.
“I gioielli della Madonna”, secondo il capo drammaturgo dell’opera, Slavomir Jacubek, è una storia reale del Suditalia, carica di emozioni e di tensione drammatica, che è stata composta in maniera eccellente dando corpo a una sonorità molto variegata. Che cosa ha, invece, colpito Lei?
Nell’opera ci sono 3 personaggi molto strani: c’è la giovane Mariella che vuole uscire da un contesto in cui sente molto ingabbiata; c’è Raffaele che rappresenta la frazione del cattivo e della libertà e infine Gennaro, personaggio molto chiuso in un sistema di famiglia e religioso e che lascia pochi spazi per uscire. C’è una piccola “Carmen Story” intrufolata nella musica di Ermanno Wolff-Ferrari che riprende molti aspetti della Napoli come era nel 1911. Ovviamente certi momenti, come la malavita che coordina il tutto, la religiosità che continua ad essere molto forte e sentita, la volontà dei giovani di uscire da un contesto molto stretto e molto cupo, ma anche la volontà di vivere: aspetti che si ritrovano ancora facilmente nella Napoli di oggi.
Un ricordo chiaro: avevo 4 anni e ricevetti il primi giradischi. Poi a 18 anni ho iniziato a cantare in un gruppo rock, seguendo poi la musica rock per tantissimi anni. L’amore per l’opera è venuto abbastanza tardi, nel 2001, quando sono stato chiamato a dirigere il teatro di Bolzano. Fino ad allora, sinceramente, non ero molto ferrato nel campo dell’opera: è nato un percorso con l’opera che dura ormai da 15 anni e che mi ha portato ad amare sempre più questa forma di musica.
Ho fatto tantissime cose: sono stato attore e regista di teatro, ho fatto musical e coordinato grandi eventi. Ho seguito un percorso, sempre legato al mondo artistico, ma molto variegato. Adesso, per esempio, sono anche coordinatore per l’Expo di Milano per l’Alto Adige. Non mi piace essere “legato” a un singolo settore, piuttosto propendo per avere l’opportunità di fare tante cose diverse. Essere, insomma, aperto a 360° all’esperienza artistica nella sua totalità.
Con un bagaglio di conoscenze ed di esperienze come le Sue, come si rapporta in merito agli interpreti sul palcoscenico? Ci sono aspetti in cui si ritrova ad essere molto pignolo?
È abbastanza normale che, da regista, si desideri una reazione piuttosto che un’altra. Spesso vado sul palco, vado con loro, faccio vedere la direzione che ho in mente. Ovviamente soffro quando la comunicazione non viene intesa. È il mal comune dei registi rimanere scontenti quando l’artista non comprende appieno alcune indicazioni. Non mi piacciono le cose finte. Quando vedo dei cantanti sul palco fare delle cose finte, volendo far credere al pubblico che sia vero, divento molto pignolo. Il cantante deve interpretare, ma non recitare far finta di recitare.
L’emozione, stranamente, la provo più per i luoghi in cui lavoro che per le persone con cui lavoro. Se lavoro al San Carlo di Napoli, sono emozionato dal fatto di poter lavorare in questo teatro. Lo stesso mi succede anche nell’opera di Praga. Non mi succede con gli artisti con cui lavoro perché sono troppo concentrato su cosa devo ancora migliorare, perfezionare, cosa debbo ancora dire. Ho sempre un occhio molto critico, forse troppo per riuscire ad emozionarmi. Il teatro che mi piace in assoluto di più è il San Carlo. Non so esattamente cosa di preciso mi affascini, ma posso dire che questo luogo ha per me una forza, una bellezza completa. È un luogo semplicemente perfetto così com’è.
Sono spazi molto belli e a me piace molto lavorare all’aperto, sia d’estate che di inverno. L’esterno ha sempre un fascino particolare, una sua propria dinamicità. Al contrario dei teatri, in cui la mia predilezione è chiara, per il luoghi all’aperto non c’è un posto specifico che potrei definire come preferito: sia che si tratto di anfiteatri storici che di un palco in riva al lago, c’è un’essenza di bellezza.
Non ce ne sono secondo me, non ho mai percepito i posti i cui mi sono esibito, come luoghi strani. Ho lavorato in musei, in spazi non proprio teatrali ma non li ho mai captati come estranei, ma sempre perfetti per i progetti che venivano messi in scena.
Finora ho lavorato molto su Richard Strauss e Verdi, con una chiara predilezione per Strauss che, secondo me, crea dei mondi musicali che sono davvero perfetti abbinmandoli a testi di Hoffmansthal anch’essi perfetti. Non c’è altro da aggiungere. Mi piacerebbe, invece, lavorare prima o poi su Wagner perché penso che ci sia ancora molto da scoprire.
Sicuramente: prima o poi vorrei toccare la fotografia e forse anche il film, anche perché ci capisco scopo. Sento di avere la curiosità necessaria per esplorarli. Quello che ho fatto finora, sono stati principalmente spettacoli dal vivo che “non rimangono” che vivono delle emozioni che avocano in quel momento (un video di uno spettacolo dal vivo non riuscirà mai a riprodurre le stesse emozioni). Lavorare invece ad una cosa che è fatta per rimanere: una foto, una pittura o una scultura, rappresenterebbe una sfida diversa.