Mubarak, Ben Ali, Gheddafi. Uno dopo l’altro tre dei grandi dittatori del mondo arabo sono crollati per volere della società civile. Un evento che sta già scrivendo i libri di storia e che potrebbe stravolgere gli equilibri geopolitici internazionali, così come segnare la fine del mondo come oggi lo conosciamo. E in questa nuova storia, l’Italia ha un posto di primo piano: siamo il ponte del Mediterraneo, il punto obbligatorio di passaggio tra Europa e mondo arabo, tra Occidente ed Oriente. È da noi insomma che bisogna passare per raggiungere una delle due sponde e questo ci affida il difficile ruolo di mediatore tra le due parti. Un ruolo che in questi ultimi anni l’Italia ha gestito male, affidando l’esito delle sue politiche migratorie al sostegno e non alla condanna delle dittature. Così, mentre si continuavano ad elargire soldi ai dittatori in cambio di un controllo militare sulle frontiere, senza alcun rispetto del diritto sui migranti, la crisi interna di quei Paesi peggiorava, fino ad arrivare all’esplosione di questi giorni.
Neanche dal punto di vista del fenomeno, gli accordi italiani con la Libia sono serviti a nulla. La diminuzione dei flussi migratori si è registrata solo nel Canale di Sicilia, dove era appunto all’opera Gheddafi. Nel resto, le migrazioni sono continuate, abbandonando magari le rotte via mare per quelle vie terra, o spostandosi verso nuove mete per via della crisi economica. La vera soluzione sarebbe invece stata quella di lavorare sulle ragioni che spingono i migranti a fuggire, cioè su come aiutare la “transizione verso la democrazia di quei Paesi – denuncia l’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione Asgi -, oppure ad aprire canali d’ingresso legale e favorire la mobilità delle persone”. Nulla di tutto ciò è stato invece fatto: l’Italia ha scelto la via più semplice nell’immediato, appoggiata da una certa parte dell’Europa, mentre l’altra gridava alla violazione dei diritti, ma senza in fondo risolvere nulla.
Ecco, allora, che aperte di nuove le frontiere sul Mar Mediterraneo, migliaia di tunisini in questo inizio anno sono sbarcati sulle coste di Lampedusa, piccola isoletta siciliana ormai abituata ai clandestini per le strade.
All’indomani degli sbarchi, l’Italia ha proclamato emergenza umanitaria e l’Europa, accusata di averla lasciata sola, è all’erta, così come lo sono gli organismi internazionali. L’agenzia Frontex è impegnata a controllare i flussi, mentre la proposta di Maroni di inviare propri militari in Tunisia, ovviamente bocciata, dimostra che l’Italia continua a perseguire la linea dura. L’Onu ci chiede di rispettare le norme e di non respingere i profughi, ma è certo per tutti che in materia di immigrazione occorre ripensare tutto daccapo.
Per ovvie ragioni geografiche, l’evento ci ha colpiti più di altri e da più parti arrivano le accuse al nostro governo: le prime riguardano quello che è sempre stato il punto forte della nostra politica antimmigrazione, cioè gli accordi con la Libia; mentre le seconde coinvolgono più da vicino il nostro Presidente del Consiglio, accusato di amare troppo i dittatori, come Gheddafi e Mubarak, e di essere l’unico nel panorama internazionale a sostenere il regime bielorusso. Amicizie che si spingono forse troppo oltre per limitarsi a quei semplici rapporti commerciali che, se pur ipocriti, coinvolgono in egual modo anche altri Paesi. Al riguardo viene subito a mente quel giorno di agosto 2010, quando il nostro Presidente del Consiglio sfilò a bordo di un fuoristrada militare in compagnia di Gheddafi. Una parata che non piacque agli italiani, che avrebbero preferito riservare una simile accoglienza ad altri generi di partners. Ma quali sono i nostri interessi in Libia? Cosa spinge cioè il Presidente di un Paese moderato ad optare per questo tipo di alleanze?
Quello che sappiamo è che sono in gioco per l’Italia forti interessi economici, legati alle forniture di petrolio e gas e ad alcune nostre aziende italiane. Interessi tanto grandi che nell’agosto del 2008, Berlusconi chiese solennemente scusa a Gheddafi per i danni del periodo coloniale e firmò con lui un trattato di amicizia e cooperazione. Con questo, l’Italia si impegnava a pagare 5 miliardi di dollari in vent’anni, anche attraverso progetti di cooperazione effettuati da alcune imprese italiane. In cambio, Gheddafi ufficialmente prometteva il controllo militare delle frontiere e di riprendersi i migranti fuggiti via mare, grazie anche al regalo di motovedette nostrane e alla concessione ai libici di potersi spingere fin oltre i confini italiani. Questo ha fatto sì che l’Italia venisse spesso accusata di respingimenti collettivi, o di lasciare che lo facessero appunto i libici, nonostante il diritto internazionale sancisca invece il pieno accesso al territorio e alla procedura di asilo nell’Unione europea per coloro in fuga da Paesi violatori dei diritti umani, quale è il caso della Libia.
In questo modo, quindi, piuttosto che scegliere partner democratici, l’Italia ha deciso di affidare i propri affari e la propria dipendenza energetica ad un dittatore, pagando l’ulteriore prezzo di complicità nella violazione dei diritti umani che si verificano quotidianamente nel Paese a danno dei migranti e degli stessi libici. Perché il nostro premier abbia deciso di pagare un prezzo così alto per degli interessi economici rende lecito pensare che forse ci siano in ballo interessi che vanno al di là del Paese, ipotesi tra l’altro rafforzata dalle recenti scalate libiche alla banca italiana Unicredit.