Per lei, la ventitreenne di Seattle è innocente e per provarlo, stavolta, mette in campo l’ex agente speciale Steve Moore. A riaccendere il dibattito è un’intervista rilasciata da quest’ultimo al programma Good Morning America dell’ABC, in cui Moore parla di “processo montato ad hoc e prove inesistenti, ed accusa la polizia italiana di aver utilizzato orribili metodi di investigazione”. L’ex agente 007, che non smette mai di ricordare al pubblico la sua carriera da investigatore antiterrorista, racconta di aver iniziato la sua indagine qualche mese fa, dopo le ripetute insistenze della moglie, particolarmente colpita dal caso di Amanda. Una volta ottenuti il video della scena del crimine, le foto dell’autopsia e diversi documenti legali, Steve Moore ha così iniziato la sua indagine privata. Il frutto di questa ricerca è una serie di documenti, con tanto di termini tecnici, consultabili liberamente su internet; e ad una prima occhiata, questi sembrerebbero piuttosto convincenti.
Per prima cosa, Moore sostiene che è Rudy Guede l’unico colpevole, mentre Amanda e Raffaele non avrebbero dovuto neanche essere iscritti al registro dei sospetti. Per l’ex agente, infatti, non ci sarebbero prove della possibilità che i due abbiano partecipato all’omicidio, e questo costituirebbe di per sé una prova della loro innocenza. Nessuna traccia di DNA o capelli, nessuna lesione o graffio sul corpo e nessuna traccia di Meredith sui loro indumenti. Moore giustifica, poi, anche i resti di DNA, appartenenti a Raffaele e Amanda, trovati sul coltello del delitto, così come i continui cambi di versione e l’accusa gratuita rivolta da Amanda al congolese Patrick Lumumba, poi rivelatasi falsa.
Ma partiamo dall’inizio. Moore sostiene che il coltello, la prova chiave dell’accusa, non possa essere quello utilizzato nell’omicidio: le ferite inferte a Meredith sarebbero troppo piccole per poter essere state effettuate con quella lama. Inoltre, il comportamento contraddittorio e labile di Amanda sarebbe da attribuire ai “metodi barbari ed aggressivi” utilizzati dalla polizia nel corso degli interrogatori. Il resto lo ha fatto la polizia italiana, il cui “errore giudiziario è di dimensioni tali da ipotizzare la manomissione delle prove da parte degli inquirenti”.
La domanda è allora: si è trattato effettivamente di un giusto processo? Le prove sono state veramente manipolate? Come dicevamo, così esposta, quella di Moore sembra effettivamente un’ipotesi piuttosto convincente, ma in realtà nulla di nuovo aggiunge al dibattimento fino ad ora svoltosi nelle aule di tribunale. Certo, la giustizia italiana non gode di gran reputazione, ma – come ha commentato l’avvocato della stessa Amanda Knox, Luciano Ghirga – “le critiche alle indagini non sono una novità”, specie in un processo mediatico.
D’altronde, tutti i documenti ottenuti da Moore sono già stati ampiamente analizzati nel corso della vicenda giudiziaria. Dunque, piuttosto che la giustizia italiana, l’ex agente avrebbe dovuto accusare la difesa, che non sarebbe allora stata in grado di evidenziare elementi per lui così elementari.
Resta poi il grosso interrogativo del perché i giudici italiani avrebbero dovuto accusare Amanda Knox, pur se con il dubbio della sua innocenza. Secondo la società americana, il motivo è da ricercare nell’accanimento della stampa italiana nei confronti di Amanda, tanto da influenzarne l’intero processo oltre che la giuria. E fu proprio il mancato isolamento di quest’ultima a generare le prime critiche nella vicenda mediatica. Se così fosse, però, non si giustificherebbero l’approvazione inglese (paese originario della vittima) per il lavoro italiano così come esperienze giudiziarie similari. Si pensi ad un altro grande caso, quello di Alberto Stasi, poi assolto lo scorso dicembre dall’accusa di aver ucciso la propria fidanzata per insufficienza di prove. Anche per lui si trattò di processo mediatico, in cui, tra l’altro, il movente pedopornografico gravava particolarmente a suo sfavore. Questo prova che la giustizia italiana non ha necessariamente bisogno di un colpevole, tanto meno nel caso Knox, dove di colpevole se ne è già trovato uno, Rudy Guede, condannato a 16 anni per aver scelto il rito abbreviato.
Per Amanda Knox e Raffaele Sollecito gli anni da scontare sono invece rispettivamente 26 e 25. Ma la vicenda è tutt’altro che chiusa. Il 24 novembre prossimo inizierà il processo d’appello, per il secondo grado di giudizio. Dal canto loro, i pubblici ministeri Giuliano Mignini e Manuela Comodi hanno chiesto alla Corte d’Appello di non concedere loro le attenuanti generiche, come fatto dalla Corte d’Assise in primo grado, e condannarli all’ergastolo.
Adesso, come da copione, il caso Knox sbarca anche ad Holliwood. E’ già in preparazione un film che ne racconterà la vicenda, mentre la società americana si pone un’altra grande domanda: chi interpreterà Amanda Knox? Lindsay Lohan, Megan Fox, o Kristen Stewart?