Il governatore della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Draghi, ha finalmente imbracciato il “bazooka” e ignorando le molte perplessità del governo di Berlino ha lanciato il Quantitative Easing (Qe), un programma di acquisto di titoli di Stato per 1140 miliardi di euro (60 miliardi di euro al mese a partire da marzo fino a settembre 2016) che, riportando l’inflazione attualmente azzerata al programmato 2% dovrebbe poter rilanciare l’economia dei 19 Paesi dell’Unione monetaria europea. L’acquisto dei titoli prevede una ripartizione del rischio, 80% sulle banche centrali nazionali e il restante 20% sulla Bce. Un criterio di ripartizione che va interpretato come una concessione alla Bundesbank di Francoforte rimasta fino all’ultimo contraria al lancio del Qe.
Le obiezioni di Francoforte, condivise anche dal governo di Berlino, sono di due generi: da un lato, la convinzione che la Bce con un simile mega-acquisto di titoli di Stato superi i limiti del suo mandato istituzionale, dall’altro la certezza che l’insperata ondata di denaro fresco avrà sui bilanci degli indebitati Paesi dell’Europa del Sud, Italia in particolare, il risultato di rinviare ancora una volta alle calende greche le urgenti e necessarie riforme strutturali. Comunque sia, la mega-iniezione di liquidità operata da Mario Draghi non cesserà tanto presto di far parlare di sè. In bene, soprattutto nei Paesi europei del Sud, dove calerà la pressione degli interessi sul debito, in male soprattutto in Germania dove si nutrono persino dubbi sul carattere costituzionale di un Qe di dimensioni sinora mai viste. L’operazione, oltretutto, ha spazzato via le restanti speranze di un rialzo del livello dei tassi di interesse scesi ormai in prossimità dello zero hanno duramente colpito il rendimento dei depositi bancari dei tradizionali risparmiatori tedeschi. Gli oltre mille miliardi di euro del Qe, al ritmo di 60 miliardi al mese, affluiscono in mercati finanziari che hanno già un sufficiente grado di liquidità.
Draghi ha sempre giustificato la necessità di un Qe con il pericolo di una deflazione, una caduta dei prezzi capace di arrestare o addirittura di provocare il crollo di una parte delle attività economiche. La Bundesbank non è mai stata d’accordo su questo punto. Il pericolo di una deflazione non sarebbe infatti così reale e imminente come Draghi sostiene, in quanto il recente calo dell’inflazione avrebbe a che fare con la forte caduta del prezzo del petrolio greggio. Il fatto che la Bce abbia ignorato le molte perplessità dei propagonisti del mondo finanziario del Nord-Europa nei confronti del Qe ha indotto il quotidiano Sueddeutsche Zeitung a paragonare la Bce a un automobilista che continua a percorrere imperterrito un’autostrada in controsenso nella convinzione che siano gli altri automobilisti a essere in errore.
Comunque sia, la decisione del Qe dopo un lungo periodo di attesa è stata finalmente presa e non ci vorrà molto tempo per capire che se essa sarà in grado di ridare slancio all’economia europea. Qualche dubbio l’ha anche l’Italia, ma in linea di massima il Qe è visto positivamente nella convinzione che se non altro aiuterà a diffondere un po’ di ottimismo. Difficilmente però la mossa di Draghi aumenterà il credito alle imprese perchè l’attuale freno al credito non nasce tanto da un problema di scarsa liquidità del sistema bancario italiano, quanto dal fatto che le imprese, o non hanno intenzione di investire in considerazione della scarsa domanda del mercato, oppure non posseggono i requisiti patrimoniali imposti alle banche dai regolamenti di vigilanza. In sostanza si rischia che i soldi di cui le banche si troveranno a disporre finiscano nei conti di chi ha già sufficiente liquidità e userà il denaro fresco e a basso costo per acquistare azioni o immobile. Non arriverà mai invece nei conti di chi ne avrebbe urgentemente bisogno e sarebbe pronto a spenderlo o a investirlo a tutto vantaggio dell’economia reale.
Nel comunicato ufficiale della Bce si parla di larga maggioranza nella decisione del Qe, ma nel frattempo è divenuto chiaro che all’interno della Banca Centrale Europea è in atto un confronto tra due modelli monetari, modello latino e modello germanico. All’interno di questi due schieramenti ci sono pareri del tutto divergenti su quale sia la più efficiente strategia monetaria. Se sia migliore una politica di moneta forte stile Bundesbank e che quindi in questo caso sia l’economia reale del Paese a doversi adeguare, oppure se sia la banca centrale a dover operare un’adeguata svalutazione accorrendo così in aiuto a un’economia reale non più in grado di mantenere il passo con la concorrenza internazionale.
Queste due strategie monetarie sono anche alla base della discussione sull’opportunità di avere due euro, un euro nord (forte) e un euro sud (debole). Un progetto che venne lanciato dall’ex presidente della Confindustria tedesca, Olaf Henkel, uno degli iniziatori del partito AfD (Alternativa per la Germania). È la stessa idea accarezzata da molti politici italiani i quali sostengono che l’euro sia sopravalutato, che sta mettendo in ginocchio le imprese italiane e che è assolutamente necessario arrivare a una parità euro-dollaro. Costoro accarezzano l’idea di un’altra moneta che recuperi parte della sovranità monetaria italiana: una nuova lira il cui cambio con l’euro andrebbe periodicamente aggiornato, esattamente come si faceva con la vecchia lira nei confronti del vecchio marco tedesco. Funzionava benissimo allora.
L’Unione Europea è attualmente composta di 28 paesi destinati probabilmente ad aumentare. La zona euro ha invece ha soltanto 19 Paesi e ciò dimostra che in Europa anche in futuro continueremo ad avere diverse monete. Il problema è di capire se l’attuale moneta unica dell’Eurozona sia l’adeguata risposta alle sfide che ci attendono nel XXI secolo. La risposta non è facile proprio a causa dell’esistenza delle due filosofie monetarie che convivono nell’euro. Alla luce degli sviluppi greci è evidente che il sistema dell’euro va aggiornato, ristrutturato e integrato. Già agli inizi di questo millennio il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder animato dal “senso di responsabilità per l’Europa” aveva cercato di mettersi al vertice di un processo di unificazione europea ricalcato sul modello del sistema federale tedesco, una struttura che in tutti i decenni del secondo dopoguerra ha dimostrato di funzionare politicamente in modo assolutamente convincente.
In Francia, in Gran Bretagna e anche in Italia le proposte di Schroeder avevano affiorare non poco perplessità. La proposta fu vista come il tentativo dei tedeschi, con alle spalle una riunificazione della Germania ormai felicemente portata a termine, di assumere in Europa un ruolo di leadership. Un passo ancora prematuro in un’Europa che non ha ancora dimenticato gli orrori della seconda guerra mondiale e le responsabilità tedesche. Probabilmente sarebbe andata meglio se Schroeder invece di proporre come modello la struttura federale tedesca avesse indicato il modello svizzero, come ha fatto recentemente il suo ex-ministro degli Esteri tedesco, il verde Joschka Fischer, nel suo libro “Scheitert Europa?”. Un sistema bicamerale, con una camera alta UE e con una camera bassa con i rappresentanti dei vari Paesi. Funziona da sempre egregiamente in Svizzera dove si parlano almeno tre lingue e dove la politica però è unica. Dovrebbe quindi poter funzionare anche in Europa a condizione che Germania e Francia sia disposte a un compromesso, la prima rinunciando a un po’ di austerità fiscale, la seconda a un po’ di sovranità politica.
L’avvio di un nuovo processo decisionale verso l’obiettivo di una federazione europea potrebbe essere paradossalmente l’attuale, in un momento in cui l’Unione Europea si trova di fronte all’alternativa di proseguire l’unione monetaria con o senza Grecia.