Lungo il percorso dell’antica via romana Claudia Augusta, che univa il porto di Altino con Augusta (Augsburg), l’Adriatico col Danubio, tra Valdobbiadene e Vittorio Veneto, mentre lo sguardo indugia sullo sfondo delle Prealpi bellunesi e sull’incanto di quei boschi pendenti dalle rocce, tutto ad un tratto ti sorprende un maestoso castello che si erge su uno sperone di roccia, incastonato sullo scenario delle colline del Prosecco.
È il castello di Cison di Valmarino, per 500 anni di proprietà dei nobili Brandolini, un tempo stirpe di guerrieri, capace di reggere l’urto di tanti eserciti invasori ed ora testimone superstite delle vicende del territorio.
Perché di un vero castello si tratta, anche se da valle sembra più un palazzo signorile. Lo attesta la cinta di mura originaria, che riesci a cogliere meglio man mano che ti avvicini. L’immancabile ed erta salita di accesso ti consente di ammirare da un lato la pittoresca valle di Mareno e dall’altro uno stupendo panorama che si apre sulla pianura fino alla laguna di Venezia, finché non ti pone davanti all’antica porta d’ingresso. Ed hai la sensazione di entrare nella storia, in quel sovrapporsi di epoche e di stili che la struttura presenta.
Storia di vassalli, di vescovi-conti, di famiglie nobili, in particolare dei Da Camino (due torri ed una muraglia conservano il loro nome), e di patrizi veneziani che si alternano nella conquista o nell’amministrazione di quello che ormai era divenuto un vero e proprio feudo. Tra gli altri reggerà come podestà la fortezza il patrizio Marino Falier, futuro doge di Venezia, famoso suo malgrado per essere passato alla storia come l’unico doge giustiziato per alto tradimento, ma anche per un anonimo biglietto che ebbe rapida diffusione come velenoso gossip del tempo: “Marino Falièr, da la bella mojèr (moglie) / altri la gode, lu la mantièn”. Destino di più di qualche potente, forse non solo di quel tempo!
Con i Veneziani inizia un lungo periodo di relativa pace e, per il castello, affidato alle solide mani dei Brandolini, una volta cessata la funzione militare, comincia una serie di ampliamenti che lo porteranno a diventare una vera e propria reggia.
Lo avverti subito ammirando l’imponente facciata esterna con trifore ad arco a tutto sesto inframmezzate da affreschi con gli stemmi gentilizi dei Brandolini, ma ancor più lo avverti, appena entrato, di fronte alla maestosa e scenografica scalinata d’onore, a cinque rampe, ornata alle pareti di armature, alabarde, elmi, lance; uno scalone che dà nel salone centrale, quello delle grandi feste, nobilitato da due camini con gli stemmi dei Brandolini fregiati dalla corona stellata di Cipro, a testimonianza dei rapporti di amicizia e di parentela che li legavano a Caterina Cornaro.
Quasi inavvertitamente ti trovi nella nuova ala del castello, fatta costruire, su progetto del nobile Ottavio Scotti, da Guido IX Brandolini, un corpo ad U in cui l’architetto, utilizzando i vari dislivelli, riuscì a ricavare con soluzioni geniali, scuderie, magazzini, limonaie, alloggi per la guarnigione, stanze per ospiti e per la servitù, appartamenti nobili, decorati a stucco, con cornici eleganti, grate fiorite, riccioli, conchiglie.
Il teatro era già stato ricavato nell’ala del ‘500 da Guido VIII Brandolini, interessato in particolare alle feste da ballo ed ai concertini. Una stagione, quella delle feste e dei balli, che per il castello ebbe il suo apogeo nell’800, quando i Brandolini riuscirono ad avere ospiti delle loro sontuose feste i rappresentanti delle più nobili famiglie europee e nel 1871 anche la regina Margherita.
Poi, nei decenni successivi il destino della famiglia si avviò al tramonto. Loro grande merito essere riusciti a preservare dalla decadenza le strutture del castello, passato indenne nel corso della Grande Guerra (fu ospedale militare austriaco), fino alla vendita della proprietà nel 1959 ai Salesiani, che ne fecero un centro spirituale e culturale. Ma per la rinascita del compendio si dovette attendere il nuovo secolo.
Un castello vestito di modernità
Forse sarà stata anche una serie di combinazioni astrali, di sicuro sono stati il coraggio di affrontare le sfide, l’arditezza del pensiero, l’amore per la bellezza del nuovo proprietario (dal 1997), Massimo Colomban, illuminato fondatore del gruppo internazionale Permasteelisa, a fare il miracolo. Si trattava di trasformare le vestigia di un illustre passato in un progetto avveniristico che avrebbe dato al complesso una nuova funzione culturale, turistica e sociale, cercando di coniugare dignità storica e potere di attrazione, valorizzazione dell’ambiente e funzionalità, cultura e nuovi servizi.
“Impavidum ferient ruinae” è il motto dell’intrepido imprenditore, mutuato da un verso delle Odi di Orazio: le sventure possono ferire ma l’impavido continuerà a resistere. E tra le sciagure il nuovo proprietario doveva mettere in conto i problemi strutturali, le complicazioni burocratiche, i tempi di attesa, le spese non prevedibili. Alla fine, dopo 5 anni, il progetto è stato realizzato: 20.000 mq. di coperto, 8 ha. di scoperto, 260 stanze, un’unica offerta di recupero culturale e di ospitalità alberghiera, che riesce a far convivere il Museo delle Armi, il Salone degli Stemmi, i Criptoportici, la Cantina d’Ottone, le Antiche Prigioni con i meeting rooms, i cocktail bar, i ristoranti, il Centro Benessere, le dieci sale convegni, i tre teatri.
Solo un “innamorato del restauro di Castelbrando”, come si definisce Massimo Colomban, poteva intraprendere un’impresa simile, investendo decine e decine di miliardi di lire, e soprattutto offrendo uno dei più raffinati esempi di riqualificazione moderna e funzionale di un patrimonio storico-artistico.
Difficile lasciare Castelbrando. È tutto un mix di sensazioni, di immagini e di evocazioni quello che accompagna l’ospite alla fine della visita: suggestioni ricavate dagli ambienti storici del castello, con tanto di botole e passaggi segreti, ma anche sorprendenti notazioni originate da quell’atmosfera moderna ed innovativa che proietta nel futuro un vetusto maniero ancora avvolto nella leggenda.