Berlinale 2020
È stata bella la Berlinale di quest’anno, settantesima edizione. Il nuovo direttore artistico, il torinese Carlo Chatrian, ha confezionato un programma ampio e artisticamente più che valido, nel solco della tradizione di questo rinomato festival del cinema. Ha vinto il film «There is no Evil» del regista iraniano Moahammad Rasolulof (impossibilitato a venire a ritirare il premio per ragioni politiche, visto che le autorità di Teheran gli hanno ritirato il passaporto), e mai come questa volta la valutazione della giuria (guidata dal presidente Jeremy Irons) è risultata ineccepibile.
Il film è un gioiello che condensa abilmente leggerezza, realismo e denuncia sociale. L’Orso d’oro se lo è pienamente meritato.
Ma le buone notizie riguardano le sorti del cinema italiano. C’erano due film in concorso ed entrambi hanno ricevuto un premio di assoluto prestigio. Non era mai successo che l’Italia portasse a casa una simile doppietta da Berlino. L’Orso d’argento per il miglior interprete è andato a Elio Germano, che riesce a dare il meglio di sé nel ruolo del pittore Antonio Ligabue in «Volevo nascondermi» di Giorgio Diritti. L’altro Orso d’argento, quello per la migliore sceneggiatura, è andato a «Favolacce», opera firmata dai gemelli D’ Innocenzo.
Il premio per Germano era nell’aria perché la sua splendida interpretazione ha colpito tutti, critici e spettatori. Cinque anni dopo avere assunto i panni di Giacomo Leopardi nel film «Il giovane favoloso» di Mario Martone, Germano riesce qui a penetrare la personalità di Ligabue senza concedere nulla alla retorica o allo stereotipo. Il movimento degli occhi, la mimica facciale, la camminata e la gesticolazione riproducono perfettamente quanto possiamo percepire dai documentari di repertorio che si possiedono e sui quali il regista Diritti e l’attore hanno lavorato intensamente.
Ma Germano va oltre e riesce a trasmettere tutta la tensione di un’energia animalesca richiusa nella gabbia di un corpo brutto e goffo. «Dedico il riconoscimento a tutti gli storti, gli sbagliati, i fuori casta» ha dichiarato Germano dal palco del Berlinale-Palast «e naturalmente ad Antonio Ligabue, alla sua grandissima lezione, alla convinzione per cui, nella vita, vale quello che si fa. Gli artisti, prima di essere riconosciuti, sono tutti così. Persone fragili, che non nascondono la loro umanità, anzi, che la proteggono, per poi farne qualcosa. Gli artisti sono un po’ tutti dei disadattati. Io mi sento in questo modo, e ho avuto la fortuna di poter trasformare tutto questo in un mestiere».
Grande emozione anche per Damiano e Fabio D’Innocenzo, due giovani registi romani semplici e geniali che già si erano fatti conoscere alla Berlinale due anni fa con il film «La terra dell’abbondanza», allora presentato nella sezione Panorama.
Ora i due gemelli, inseparabili nella vita e sul set, hanno dimostrato di essere giunti ad una totale e consapevole maturità artistica con la loro opera seconda intitolala «Favolacce», nella quale mettono a nudo lo squallore celato dietro le apparenze piccolo borghesi della provincia romana. Raccontano un mondo quotidiano anonimo, uguale a mille altri: l’indolenza dell’estate, le chiacchiere vuote e i pettegolezzi dei vicini, le cene, le festicciole di famiglia. La prospettiva che assumono è quella dei bambini e lo fanno mediante sequenze e inquadrature che rilevano la loro bellezza ingenua e accattivante, tipica di coloro che stanno conoscendo la vita attraverso centinaia di scoperte continue: il sesso degli adulti, quello curioso degli adolescenti, la cattiveria insospettabile, il sospetto e i segreti indispensabili per poter sopravvivere a casa.
«Grazie ai bambini che recitano nel film e che ci hanno permesso di crescere, alla nostra famiglia e a tutti gli amori che contiene, e grazie a mio fratello», ha dichiarato Damiano al momento della premiazione, mentre Fabio ha precisato «Abbiamo pensato fosse giusto, dopo il primo film, fare la cosa che avvertivamo più urgente, sentivamo di avere l’età giusta per farla adesso, di non avere lo sguardo inquinato e di trovarci in quel dolce dualismo tra infanzia e maturità».
Il cinema italiano esce dalla Berlinale 2020 con la consapevolezza della propria tradizione e della propria forza.