Seguendo la lettera di un padre orfano, approfondiamo il tema dell’uranio impoverito (parte 1)
Gentile Redazione,
sto scrivendo a tutti i giornalisti, anche se già cosciente del fatto che non otterrò risposta perché ciò di cui scrivo non è di moda. Però è la Storia, anche se nessuno adesso ne parla.
Un giorno questa Storia arriverà a essere scritta nei libri, anche se probabilmente nessuno dei suoi protagonisti sarà più vivo per poterla leggere. Di sicuro non lo sarà mio figlio, del quale è stato da poco celebrato il funerale. Mio figlio era un Soldato, uno degli oltre trecento già morti a causa del contatto con l’uranio impoverito durante una delle sue missioni all’estero. Io sono un padre sopravvissuto a suo figlio, ma non è tanto questo il dramma quanto il gelido silenzio che lo circonda. Trecento già morti, migliaia di malati. Un reggimento, no, di più: una piccola armata le cui file sono purtroppo destinate a crescere.
Sono diecimila i commilitoni di mio figlio al momento esposti al pericolo infido della contaminazione senza essere ANCORA né avvisati né tantomeno dotati di mezzi idonei. Perché dotarli vorrebbe dire ammettere il problema. E ammettere il problema vorrebbe dire che qualcuno deve assumersi una grande responsabilità. Un giorno questo sarà nei libri di Storia, ma nel presente nessuno ha il coraggio, sì signori, il coraggio, di scriverne e di parlarne. Il ‘900 si è aperto con la sperimentazione dell’iprite, il 2000 con quella dei proiettili all’uranio impoverito. Sì, perché di questo si tratta: esperimento su cavie umane. I civili dei luoghi bombardati e i militari italiani ai quali è stato taciuto tutto e si continua a tacere. Io, assieme ad altri padri e madri e sorelle e fratelli e figli non sappiamo più che fare. Aspetteremo che qualcuno si decida a scrivere la Storia prima che i protagonisti siano tutti morti. Aspetteremo.
Lettera firmata
Dall’inizio di quest’anno è diventata attiva una nuova associazione chiamata ANVUI (Associazione Nazionale Vittime dell’Uranio Impoverito) con tanto di sito facebook su cui si raccolgono le testimonianze delle migliaia di vittime di linfomi di Hodgkin ed altre degenerazioni cancerose che hanno distrutto i corpi giovanissimi (fra i 20 e i 30 anni) di militi italiani; il che, secondo il nostro Ministero della Difesa rientrerebbe perfettamente nella normale media statistica, a parte la circostanza collaterale che gli sfortunati corpi vestivano tutti le sue uniformi, e che erano tutti in servizio negli stessi posti, i quali, altra coincidenza insignificante, erano stati bersagliati da proiettili all’uranio impoverito. Il cosiddetto „uranio impoverito“ (depleted Uranium, in inglese) non è altro che il sottoprodotto della raffinazione dell’elemento naturale, che contiene un miscuglio di atomi di uranio 238 (al 99,3%) e di uranio 235 (allo 0,7%). Solo quest’ultimo serve alla costruzione della bomba atomica e dei reattori nucleari, e perciò bisogna concentrarlo attraverso un lungo processo chimico-fisico denominato „arricchimento“ nella cultura americana, e che costituisce il più grosso problema tecnico da superare per realizzare gli armamenti nucleari. Tanto è vero che ultimamente ha suscitato enorme sgomento la minaccia dell’Iran di ricominciare a raffinare le sue scorte d’uranio. Ma se l’uranio da una parte si arricchisce, dall’altra s’impoverirà, come insegnano certi economisti, e così per ottenere qualche chilo di preziosissimo U235 si producono tonnellate di U238 di scarto. Nel 2002 se ne stimavano circa 1 milione e 200 mila tonnellate in tutto. L’uranio è un metallo pesante, velenoso oltre che radioattivo, con densità 19,1 g/cm3, il che significa che se una bottiglia da un litro anziché acqua minerale contenesse uranio, peserebbe più di 19 kg.
Che farsene? La NATO ha trovato una soluzione brillante (alla lettera!) facendone dei proiettili anticarro che, grazie alla loro densità, riescono a sfondare qualsiasi corazza metallica o di cemento. Per di più l’uranio metallico è piroforico, cioè che brucia all’aria come fa il magnesio che si usava per i vecchi flash fotografici. L’impatto con l’obiettivo lo riscalda sopra i tremila gradi, e da quell’inferno di fuoco e fiamme evaporano nell’ambiente circostante i vapori del metallo e le ceneri fini del suo ossido, entrambi radioattivi. Secondo Marco Rossi, docente di ingegneria delle nanotecnologie all’Università La Sapienza (Roma 1), “i gas che poi nell’aria si solidificano in nano particelle, grandi un millesimo di un capello, che una volta respirate possono creare conseguenze dopo anni di accumulo”.
Le radiazioni non hanno una loro esistenza autonoma ma, come la luce, ci sono solo se c’è una sorgente che le emana. Non c’è fumo senza fuoco, si potrebbe dire. Nel nostro caso la sorgente radioattiva è l’U238, che emana un certo tipo di radiazione chiamata per convenzione „alfa“, dalla prima lettera greca. Sono radiazioni fortemente ionizzanti ma con scarso potere di penetrazione. In altre parole, una particella alfa durante il suo tragitto risucchia elettroni da ogni molecola con cui si scontra, indebolendone e spezzandone i legami chimici che le tengono assieme: si possono paragonare a delle automobili impazzite che producono un enorme scatafascio durante il loro tragitto ma che, proprio per questo, non vanno lontano. Non riescono a penetrare nel primo strato di pelle e basta un mettere foglio di carta davanti alla sorgente per schermarle. Ma guai se il nemico esterno diventa nemico interno!… Se gli atomi di U238 riescono a penetrare dentro il nostro corpo, diffondendosi dovunque nei nostri tessuti interni, allora le particelle alfa che essi emettono produrranno dovunque attorno a sé degli scatafasci molecolari, denaturando le proteine e spezzando il DNA dei cromosomi. E come vi possono penetrare? Principalmente per due vie: per inalazione in forma di vapori ed aerosol o per via orale nei cibi o nelle bevande contaminate dall’uranio. Le polveri da 0,1 micron, una volta inalate, possono arrivare nel sangue in soli 60 secondi, e nel fegato in un’ora, sono in grado di passare ogni barriera dell’organismo, sia quella polmonare sia quella gastro-intestinale, accumulandosi all’interno del corpo che non ha alcuna difesa né possibilità di espellerle: „Sei fregato“ per dirla in linguaggio da caserma.
Il bello è che questi rischi erano ben noti al Ministero della Difesa italiano, perché gli erano stati comunicati tempestivamente dai comandi americani, che mandavano in giro i propri soldati chiusi in tute di sicurezza per quelle contrade. In violazione del diritto internazionale, ed in particolare dei protocolli della Convenzione di Ginevra del 1977, la NATO scaricò su Serbia, Montenegro e Kosovo, nell’arco di due mesi, una quantità di uranio impoverito valutata ad oltre 8 tonnellate da fonti dell’ONU. Le autorità del nostro paese e le alte gerarchie dell’Esercito Italiano ne erano informati, ma non fecero nulla né per mettzere in guardia le popolazioni locali né i soldati italiani che avevano a Peja-Pec un loro insediamento permanente. E questo forse si potrebbe considerare un’omissione di atti d’ufficio.
I comandi italiani presero invece un approccio molto più light al problema, forse anche perché le tute di sicurezza costavano troppo per un bilancio ministeriale che doveva foraggiare il suo sovrabbondante numero di generali con tutti i loro privilegi (appartamenti di superlusso gratis, maserati di servizio con autisti, superstipendi, indennità su indennità, pensioni d’oro, liquidazioni milionarie,ecc.). Così i soldati semplici venivano tenuti a stecchetto e dovevano persino pagarsi la mensa. Bisogna riconoscere che il mandare i soldati male equipaggiati in missione all’estero rientra perfettamente nelle tradizioni dell’Esercito Italiano: basta pensare alle famose “scarpe di cartone”, che in realtà erano fatte con rifiuti di cuoio incollati assieme, nella campagna di Russia. Secondo i loro racconti, i soldati italiani videro diverse volte i soldati americani aggirarsi per quegli stessi luoghi interamente coperti da scafandri “da marziani” anche se invece di UFO si trattava semplicemente di U.
Quelli di loro che ardivano esprimere qualche perplessità ai superiori, venivano tacitati con atteggiamenti di superiorità ovviamente, e il discorso faceva dietrofront sulle dicerie dei veleni ambientali, che erano solo chiacchiere di giornalisti. Purtroppo la prassi così diffusa nella cultura italiana, di rispondere con degli atteggiamenti a degli argomenti, sembra avere facile ingresso dentro una struttura chiusa e rigidamente gerarchica come l’esercito. Per rispondere a degli argomenti con dei validi contro argomenti richiede grande sforzo di intelligenza, mentre per assumere degli atteggiamenti, basta un mediocre talento d’attore. E per un soldato di grado inferiore, mettere a nudo la superficialità e l’ignoranza dei propri superiori è un’impresa altamente rischiosa, degna d’un kommando suicida.