Come già ricordato, Moody’s – Fitch – Standard & Poor’s sono i tre maestri dell’universo, i tre giudici della finanza mondiale, le loro matite rosse e blu sono tre letterine dalla A alla C assieme a qualche più e meno. Le loro bocciature fanno cadere governi, mandano in bancarotta interi Paesi, decretano la fine di multinazionali che, prima delle loro pagelle, erano considerate troppo grandi per fallire. A queste “tre sorelle” qualcuno aggiunge la cinese Dagong, ma l’oligopolio del rating è appannaggio delle tre sorelle americane, con una spruzzata di capitale francese. Temute, odiate, messe sotto inchiesta sia dalla Sec a New York, che dalla piccola procura di Trani in Puglia, eppure indispensabili perché in un pianeta opaco come quello della finanza mondiale, infarcito di titoli tossici e di bluff di carta, serve la parvenza di un controllore imparziale, almeno in teoria, per orientare gli investimenti con un giudizio. Il mondo è seduto su un Himalaya di debiti: qualche anno fa erano 200 mila miliardi di dollari, mentre il Pil globale si attestava sugli 80mila miliardi. Il debito va diviso tra tre componenti: quello delle famiglie si aggira sui 40mila miliardi, il debito corporate di banche e imprese viaggia su quota 70-80 mila miliardi, il resto è il debito pubblico dei Paesi del mondo. Un oceano di titoli di Stato sul quale le tre grandi sorelle del rating mettono il loro bollino di qualità.
E incassano laute percentuali.
Gli analisti hanno calcolato che gli utili delle agenzie si aggirano sul 38% dei fatturati. Declassare quindi la Gran Bretagna a livello AA, come hanno fatto S&P e Fitch, mentre Moody’s ha emesso un outlook negativo (anticamera del declassamento), ha aggiunto costi finanziari al già pesante bilancio della Brexit. Ma ha fatto guadagnare altri milioni sulle future emissioni di debito ai tre giudici mondiali. Chi sono i Paesi virtuosi per le agenzie di rating? La classifica ricalca quella degli Stati che non sono mai falliti nella storia, stilata nel libro cult «Questa volta è diverso» del duo Reinhart-Rogoff: nove Paesi hanno la tripla A e sono Svizzera, Lussemburgo, Singapore, Norvegia, Danimarca, Canada, Australia, Germania e Svezia. Se si aggiungono i giudizi della cinese Dagong, solo i primi quattro sono al top. Gli Stati Uniti sono stati declassati di recente, la Finlandia due anni fa dopo la grave crisi provocata dall’euro troppo forte. La serie di bocciature sul rating provocò la reazione di Olli Rehn, vicepresidente della commissione UE che disse: “Le agenzie di rating non sono istituti imparziali, ma perseguono i loro interessi. E sono in linea con il capitalismo finanziario americano”.
Rehn ha parlato come il bambino nella favola ‘Il vestito nuovo dell’imperatore’: tutti sanno che le tre grandi sorelle del rating sono di proprietà di colossi finanziari americani (a parte Fitch che per il 60% è francese), che il primo azionista di Moody’s (quotata in Borsa, tra l’altro) è Warren Buffett, che gli incroci di proprietà, tra Black Rock, Vanguard, Capital World, sono la regola e generano un palese conflitto di interessi. Uno dei principali capi di accusa per il crac Lehman Brothers, premiata fino a poche ore prima del crollo con la tripla A. Lo stesso giudizio assegnato ai mutui subprime, con una giustificazione semplice quanto sbagliata: chi è quell’americano che non paga il mutuo? Poi si è scoperto che non potevano più farlo in milioni. Il caso Italia e l’inchiesta della procura di Trani meritano delle considerazioni importanti: il pm Michele Ruggiero è riuscito a trascinare nella cittadina pugliese i pezzi grossi delle tre agenzie, ritenuti colpevoli di una macchinazione nel 2011 ai danni dell’Italia e del governo Berlusconi. Prima Moody’s emise un outlook pesantemente negativo sul rischio Italia: lo spread si impennò, i conti peggiorarono, Monti diventò presidente del consiglio, due mesi dopo S&P e Fitch retrocessero l’Italia da A a BBB+, scatenando l’inferno sui mercati.
Il premier Monti parlò di «attacco all’euro e all’Europa». A Trani i pm hanno ascoltato, come persone informate sui fatti, anche Monti, Prodi, Vegas, Draghi, l’ex ministro Tremonti, oltre ai vertici delle tre agenzie di rating. L’ipotesi di reato è manipolazione del mercato tramite informazioni distorte e tendenziose. Ma l’epilogo sembra inesorabile, si va verso l’archiviazione. Una delle principali ragioni per cui vengono quindi criticate le agenzie di rating è che, prima della crisi del 2008, avevano dato ottime valutazioni ai titoli derivati che successivamente si sarebbero dimostrati prodotti tossici. Fu effettivamente un caso gravissimo, in cui il potenziale conflitto di interesse insito nel loro modello di business si manifestò in tutta la sua forza. Ma fu anche un caso particolare e, per il momento, quasi unico. In breve, all’epoca le cose andarono più o meno così. Nel corso degli anni Duemila il mercato dei mutui americani crebbe moltissimo e le banche, piccole e grandi, cercarono metodi sempre più elaborati per guadagnarci più soldi possibile. Uno di questi metodi fu la cosiddetta “cartolarizzazione” dei mutui. In sostanza, un semplice prestito concesso a una famiglia per l’acquisto di una casa veniva impacchettato insieme a migliaia di altri prestiti per creare un unico prodotto finanziario, da vendere ad altri investitori. Questo prodotto, molto sicuro perché basato su beni reali come una casa, veniva poi usato, per esempio, come garanzia per ottenere altro denaro in prestito.
Non tutti i mutui però sono uguali: ce ne sono di sicuri e meno sicuri. Impacchettando in uno stesso prodotto, per esempio, 80 mutui sicuri e 20 mutui rischiosi, si otteneva comunque un prodotto all’apparenza ben garantito. Così, quando le grandi banche chiedevano una valutazione per questi prodotti, le agenzie di rating assegnavano loro valutazioni sempre molto alte. In pochi anni questo mercato divenne gigantesco e le divisioni delle grandi banchi d’affari che si occupavano di cartolarizzazione dei mutui divennero di gran lunga le più remunerative. Due fenomeni contribuirono a portare la situazione fuori controllo: da un lato la deregolamentazione delle attività finanziarie che coinvolse in particolare Stati Uniti e Regno Unito, dall’altro l’enorme iniezione di liquidità nei mercati finanziari causata in particolare dalle politiche monetarie della banca centrale statunitense. Il risultato fu che aumentò sempre di più la quantità di mutui con poche garanzie che venivano concessi, e che le banche si indebitarono sempre di più per entrare in questo mercato. Le agenzie di rating avrebbero potuto lanciare qualche segnale d’allarme, ma le basi di questo mercato apparivano solide. Dopotutto i complessi titoli che giravano per i mercati erano pur sempre garantiti da beni reali: le case degli americani. Scavando più a fondo, forse, le agenzie avrebbero potuto accorgersi che molti di quei mutui erano in realtà più rischiosi di quanto apparivano, e che alcuni piccoli operatori avevano iniziato a concederne senza più tenere conto della solidità patrimoniale di chi si indebitava. Qui venne fuori la debolezza del modello di business delle agenzie di rating relativamente ai privati.
Il volume d’affari generato dal mercato dei mutui, e il fatto che fosse concentrato in poche banche d’affari di Wall Street, creò un forte incentivo a non indagare più di tanto. Il risultato fu che quando la bolla del mercato immobiliare scoppiò, come era inevitabile che avvenisse, la valutazione eccellente di quei titoli perse ogni significato. Non è affatto sicuro che da allora le agenzie di rating abbiano cambiato i loro metodi in modo da rendere impossibile il ripetersi di un episodio simile, e non sappiamo se da qualche parte, dietro valutazioni eccellenti, si nasconda una nuova bolla. Quello che è certo, però, è che quella del 2008 fu una situazione peculiare, causata da molti fattori concomitanti, e che poco o nulla ha a che fare con le valutazioni che quelle stesse agenzie rilasciano oggi sui titoli di stato sovrani, basandosi su dati pubblici e seguendo, e quasi mai causando, i giudizi che mercati e istituzioni internazionali hanno già emesso. Pertanto perché – visto che sono soggetti privati – uno Stato sovrano non si fa una propria agenzia di rating (anche privata) per controllare queste agenzie che rischiano di far andare in “default” uno Stato sovrano come è stato per la Grecia ad esempio? Ma purtroppo nessuno tocchi le tre sorelle del rating: loro si limitano a dare giudizi. Che colpa ne hanno se tutti i grandi investitori puntano miliardi solo sui bond che hanno i voti migliori o se i governi cadono perché hanno avuto una brutta pagella?