Anniversari dell’orrore
Il 6 agosto di ogni anno ricorre l’anniversario di uno dei crimini più mostruosi contro l’umanità e di una catastrofe ambientale senza precedenti nella storia: la bomba atomica su Hiroshima. La bella città portuale giapponese, costruita sui sette bracci del delta del fiume Ota, contava circa 400mila abitanti, più o meno quanti ne contano oggi Firenze o Bologna. Questo fatto storico brucia ancora oggi non meno della Shoà, ed è ancora accompagnato da divergenze di opinioni, valutazioni e polemiche che probabilmente non cesseranno mai. A maggior ragione oggi, che l’Iran minaccia il mondo con la costruzione di una propria bomba. C’è una letteratura molto estesa su questo tema; mi limito a segnalare tre titoli classici. Richard Rhodes: “L’invenzione della bomba atomica” (Rizzoli 1990); Thomas Powers: “Storia segreta dell’atomica tedesca” (Mondadori 1993); Robert Jungk: “Gli apprendisti stregoni – Storia degli scienziati atomici” (Einaudi 1952).
Si può identificare l’origine comune del male (sia della Shoà, cioè, e della bomba atomica) nel medesimo personaggio storico. Già all’inizio della seconda guerra mondiale, Hitler aveva dichiarato di possedere un’arma speciale, terribile e definitiva, contro cui nessuna potenza avrebbe potuto resistere. Solo propaganda? Gli americani, allarmati da Leo Szilard e da Einstein, la presero sul serio. Dopotutto avevano ricevuto dei segnali preoccupanti da Niels Bohr e Lise Meitner, tutti scienziati serissimi e stimatissimi. Non per nulla i tedeschi si erano impadroniti dell’unica fabbrica di acqua pesante esistente al mondo, in Norvegia, e ne stavano aumentando ed assemblando la produzione. Ora, l’acqua pesante è una sostanza molto speciale il cui unico impiego era ed è nella tecnologia nucleare. E questo era un segnale inequivocabile. Così gli americani si buttarono a capofitto a concorrere con i tedeschi, come avrebbero fatto poi con i russi nel dopoguerra per la conquista della Luna. Dovevano assolutamente arrivare loro per primi alla nuova arma. Non sapevano che al di là dell’Atlantico Heisenberg stava procedendo a passo di lumaca con la ”Uranmaschine” per vari impedimenti organizzativi, e gli Yankees non potevano correre alcun rischio. Ma anche gli scienziati che lavoravano per loro (tra cui il nostro Fermi) si dovettero rompere la testa con diverse difficoltà sia teoriche che pratiche, cosicché quando la bomba fu pronta, Hitler era già morto. A questo punto si aprì un dissidio fra molti scienziati e i militari. I primi non vedevano più alcuno scopo nella costruzione della bomba, essendone venuto a mancare il movente; i secondi non vedevano l’ora di usarla a proprio vantaggio contro gli odiati giapponesi. L’ultima parola spettò al presidente Truman.
E fu pollice verso. La bomba destinata alla sciagurata città era un prototipo di struttura piuttosto semplice: una specie di cannone che all’istante zero avrebbe sparato un proiettile di uranio arricchito contro un bersaglio della stessa sostanza. Nel violentissimo impatto i due corpi si sarebbero fusi assieme raggiungendo all’istante la massa critica, e in un milionesimo di secondo si sarebbe scatenata la reazione a catena. Gli scienziati avevano calcolato che il massimo dell’effetto si sarebbe raggiunto se la bomba fosse esplosa a circa 600 metri di quota, perché da quell’altezza i vettori di distruzione avrebbero raggiunto il compromesso ottimale fra la loro intensità e ed il raggio di diffusione. Perciò “Little Boy”, come fu soprannominato l’infernale ordigno, venne dotato di tre sensori ad ultrasuoni per misurare la distanza da un corpo riflettente, e solo quando tutti e tre i segnali avessero coinciso con l’altitudine giusta, i circuiti elettronici si sarebbero chiusi ed i detonatori avrebbero scaricato.
Alle otto e un quarto del mattino del 6 agosto 1945 il bombardiere americano lanciò la bomba sul centro della città. E nell’istante zero avvenne la reazione a catena: gli atomi d’uranio si spezzarono a ripetizione, e la struttura della materia collassò in un caos di neutroni, di frammenti impazziti di nuclei atomici, di elettroni che vi precipitavano a cascata, di raggi X e di raggi gamma, liberando istantaneamente un’enorme quantità di energia secondo la famosa equazione relativistica fondamentale: E=mc², conosciuta come equazione di Einstein. L’energia liberata fu emessa inizialmente in forma di onde elettromagnetiche: il famigerato lampo dell’esplosione che risultò diecimila volte più intenso della luce del sole a mezzogiorno. Le persone che lo ricevettero, ne rimasero incenerite all’istante, e solo la loro ombra rimase stampata a terra. Furono circa 90mila, e furono le più fortunate. “Tutti, nella mia via, sono bruciati vivi come zanzare alla fiamma, in un attimo”, si ricorda Takayoshi Yainada, “L’asfalto si è trasformato in un fiume di olio bollente”. Midori Naka ha lasciato detto: “Una fiamma bianca ha riempito tutto l’appartamento ed ogni cosa ci è crollata addosso”. Motomitsu Shintaki viveva in periferia: “Nell’istante in cui è scoppiata la bomba ero chinato a terra nel mio orto a piantare sementi, protetto da un muro di mattoni non più alto di un metro. Mia moglie Ikuko era in piedi accanto a me e mangiava riso e otsukemono in una ciotola di legno. Parlava in fretta, come tutte le donne. Poi ha smesso di parlare di colpo: ha detto la prima metà d’una parola e non ne ha detto la seconda. Io per qualche secondo ho continuato a spargere i semi, finché ho udito un boato spaventoso. Ho alzato la testa ed ho visto Ikuko nera come un pezzo d’antracite, con le mano rattrappite attorno alla ciotola. Era morta senza sapere di morire”. Quando il lampo si spense apparve una sfera di fuoco del diametro iniziale di circa 80 metri e della temperatura iniziale di più di un milione di gradi. Espandendosi adiabaticamente al triplo della velocità del suono, condensò l’atmosfera circostante in un’onda d’urto micidiale che esercitò la pressione di mezzo milione d’atmosfere tutto attorno a sé. La sua violenza fu tale da sradicare le case dalle fondamenta soffiandole via come castelli di carte. Le schegge dei vetri delle finestre furono lanciati con tale forza, da sfondare la scatola cranica ed infiggersi nel cervello. “Ad un tratto ho sentito una ventata d’un caldo insopportabile che veniva dal centro della città. Sono uscita all’aperto incredula più che terrorizzata, ed ho visto ciò che nessuno potrà mai credere”, si ricorda Stomu Koyama, “Uomini e donne tutti neri, bruciacchiati, seminudi, senza capelli. Qualcuno aveva la faccia che si liquefaceva come cera. Non potevamo aiutare quegli sventurati perché erano privi di pelle. Se solo li toccavamo, urlavano come folli”. Nel frattempo la temperatura della sfera di fuoco, dilatandosi, era discesa sotto i 10mila gradi ed essa si era condensata in una nube infuocata che prese a salire impetuosamente verso l’alto provocando un risucchio di materiale incandescente che formò la famosa nube a fungo. Questa risucchiò a sua volta l’aria circostante provocando un uragano di fuoco che finì di bruciare tutto quanto era ancora rimasto di combustibile. I corpi umani subirono orrende ustioni, in parte testimoniate dalle foto, in parte descritte dai testimoni sopravvissuti. “Appena all’aperto, sono stato sopraffatto dalla visione d’un fuoco immenso che si contorceva come un serpente e sibilava spaventevolmente” si ricorda Takehide Yokoo, “Tutto era fuoco, solo fuoco, anche gli uomini ardevano come zolfanelli. Quelle torce umane fuggivano urlando ed anch’io sono corso verso un bosco di bambù. I cadaveri erano sparsi ovunque, vicino a me barcollavano degli agonizzanti con la faccia mummificata e senza occhi ”. Ad alcuni la testa era ridotta ad un grumo carbonizzato che rendeva impossibile distinguere la faccia dalla nuca; ad altri la propria pelle si sfilava dal corpo come un guanto, esponendo la carne nuda. Benché fosse mattina, sul luogo dove poco prima c’era la città era scesa un’oscurità notturna rotta solo dai bagliori degli incendi, mentre dovunque si aggiravano come ombre dannate le vittime mutilate, ferite e ustionate, smarrite e disperate, fra urla, sospiri ed alti guai che sembrava una raffigurazione dell’inferno dantesco. Ma non era ancora finita: la nube radioattiva a fungo, salendo nella stratosfera, si era raffreddata condensandosi, e poco dopo incominciò a piovere in grosse gocce nere, calde e viscide: il fall-out radioattivo.
Chiunque se ne imbrattasse, il suo corpo ne restava gravemente contaminato. Fu allora che i pochi medici superstiti si trovarono confrontati per la prima volta con degli strani sintomi che non sapevano spiegarsi né come curare. Continuarono ad apparire nei mesi e negli anni successivi. Ancora oggi non si sa, e probabilmente non si saprà mai, il numero complessivo delle vittime. Esse vengono onorate ogni anno, il 6 agosto, nel Parco della Pace di Hiroshima, risorta dalle rovine e totalmente americanizzata.