Prospettive incerte per la nona elezione del Parlamento europeo
Dal 23 al 26 maggio avranno luogo le elezioni europee. I cittadini dei 28 Stati membri dell’Unione eleggeranno i deputati che li rappresenteranno nel Parlamento europeo, unica istituzione, tra le sette in cui si articola l’Unione, che viene eletta a suffragio universale. Circa 400 milioni di europei parteciperanno alle elezioni e il voto che daranno ai vari partiti nazionali sarà disciplinato secondo il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento del 4%. I seggi previsti per ciascuno Stato membro verranno raggruppati per affinità politiche e non per nazionalità. Otto sono i diversi gruppi politici collegati ai partiti nazionali ai quali si aggiunge un nono gruppo non collegato ad alcun partito.
Nel momento in cui scriviamo non è sicura la partecipazione del Regno Unito e pertanto è ancora incerto il numero complessivo di seggi che verranno assegnati: 751, come nel 2014, oppure 705 senza i seggi spettanti al Regno Unito (ma con una quota degli stessi ridistribuita in conseguenza delle mutate proporzioni nazionali). Nel 2014 i due gruppi principali che uscirono dalle urne furono quello dei cristiano-democratici (PPE, Partito Popolare Europeo) e quello dei socialdemocratici (PSE, Partito Socialista Europeo) che insieme ai liberali dell’ALDE (Alleanza Democratici e Liberali per l’Europa) hanno oggi la maggioranza (rispettivamente con 216, 185 e 77 seggi, per complessivi 478 seggi).
La Brexit è solo uno dei fattori che rendono incerto l’esito di queste elezioni. Negli ultimi cinque anni l’assetto politico europeo è stato fortemente influenzato dalla crisi economica (che ha colpito soprattutto i paesi più deboli, Italia compresa), dai mutamenti nei rapporti politici e commerciali con le potenze mondiali (America, Russia e Cina in primis), dall’aumento dei flussi migratori (compresi quelli via terra che nel 2015 hanno portato oltre un milione di profughi in Germania) e, non da ultimo, dai numerosi attacchi terroristici di matrice islamica. Il risultato, a livello nazionale, è stato il forte aumento di consensi dei partiti populisti, nazionalisti e sovranisti. Questa tendenza è stata confermata anche nelle recenti elezioni in Spagna dove il partito di estrema destra Vox ha ottenuto il 10% dei voti. Soltanto tre anni fa questo partito aveva lo 0,2% dei consensi.
I fattori sopracitati inevitabilmente comporteranno ricadute nell’assetto politico globale dell’Unione e l’accentuarsi della frammentazione partitica a livello nazionale contribuirà a rendere difficile la formazione di una coalizione di maggioranza anche a livello europeo. A poco meno di un mese dalle elezioni dell’unico parlamento transnazionale del mondo, il risultato è quanto mai incerto. Quale Europa uscirà dalle urne il 26 maggio 2019? Vinceranno gli euroscettici o i sostenitori dell’Unione? Sarà possibile formare una maggioranza che permetta il funzionamento del Parlamento, che permetta le modifiche ai trattati e alle stesse istituzioni europee da più parti sollecitate? Quali azioni metteranno in campo i partiti di estrema destra dichiaratamente anti-europeisti come il sopracitato Vox, quelli dei paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), il francese Front National, la Lega in Italia e Alternative für Deutschland in Germania?
Nello scorso mese di gennaio un sondaggio della fondazione Bertelsmann relativo a un campione di 23.000 elettori dei 12 maggiori paesi europei ha evidenziato che l’aumento di consensi per i partiti nazionalisti di destra potrebbe essere piuttosto consistente e tuttavia non tale da capovolgere i rapporti di forza tra maggioranza europeista e opposizione anti-europeista. Dal sondaggio è emerso anche che molti elettori non sapevano ancora cosa votare, altri sapevano solo per chi non avrebbero votato. Probabilmente le ultime settimane di campagna elettorale serviranno a coagulare le intenzioni degli indecisi. Il fatto che, a quarant’anni dalle prime elezioni europee, la posta in gioco sia diventata la stessa sopravvivenza dell’Unione, convincerà probabilmente molti elettori a recarsi alle urne scongiurando un ulteriore aumento dell’astensionismo.
Nel 2014 solo il 42,54% degli elettori andò a votare (in Italia furono il 57,22%), nel 1979, anno della prima elezione (a cui parteciparono solo 9 paesi europei), la percentuale di votanti fu del 62% (in Italia quasi l’86%).
I motivi della diminuzione dei votanti sono riconducibili a una disaffezione generale nei confronti dell’Ue e delle sue istituzioni, poco conosciute dalla maggioranza dei cittadini europei e, soprattutto, percepite come parti di una macchina burocratica complessa e poco efficiente.
Le infinite discussioni sugli aspetti più svariati – da quelle marginali come le quote latte a quelle cruciali come la ripartizione dei migranti o la moneta unica – hanno contribuito a creare disaffezione. Che i meccanismi di funzionamento dell’Unione richiedano una drastica revisione è innegabile, ma ciò non giustifica che insieme all’acqua sporca venga gettato via anche il bambino. Quel bambino è la nostra casa comune, sorta dalle macerie della seconda guerra mondiale, baluardo di pace e di amicizia, di libertà, democrazia e prosperità per mezzo miliardo di cittadini.
Ciò che ogni elettore dovrebbe chiedersi è se il disinteresse espresso dall’astensionismo oltre le istituzioni europee riguardi anche l’idea stessa di Europa. Ciò che ogni elettore dovrebbe chiedersi è in quale Europa vorrebbe vivessero i propri figli.
Affinché la casa comune continui a crescere e a prosperare è necessario, questa volta ancor più che in passato, un voto per l’Europa e contro la minaccia involutiva rappresentata dai nazionalismi emergenti.
La Brexit è stata uno dei risultati, forse il più eclatante, di questa involuzione. E non è bastato che una petizione raccogliesse, in poco più di un mese, oltre sei milioni di firme per convincere il governo inglese a restituire la parola agli elettori consentendo un secondo referendum. Ora c’è da sperare che i cittadini del Regno Unito partecipino alle elezioni europee e che dal loro voto emerga la chiara volontà di rimanere nell’Unione. Ora c’è da sperare che i cittadini di tutti gli Stati membri dell’Unione europea con il loro voto mostrino di aver compreso che l’unica strada per affrontare le grandi sfide del futuro riguardanti clima, ambiente, energia, migrazione, terrorismo, sicurezza, difesa, politica estera, commercio internazionale, fisco, scuola, lavoro, etc., è quella della condivisione e dell’unità, condizioni essenziali per costruire un futuro comune.