A sessant’anni si avvicina per gli esseri umani il tempo della pensione. Molti, purtroppo, ci vanno anche prima, perché si conclude il loro contratto sociale e con esso la loro utilità pubblica. Questo è un dramma per molti, ma un dato di fatto. Bisogna chiedersi allora se il contratto sociale del giornale possa dirsi in via di esaurimento, o addirittura concluso, o se è possibile vedervi un futuro. E in quel caso, quale? Non essendo più io, dal giugno scorso, il direttore del giornale, la mia opinione vale come quella di qualsiasi cittadino italiano in Germania. In questo senso non dovrei essere io a fare questa relazione, bensì chi da giugno ha l’autorità per farlo. È stato chiesto a me forse perché conta l’esperienza di quattordici anni di trincea, nei quali il giornale è cambiato molto. E forse contano le riflessioni (ripeto, del tutto personali) che in quattordici anni ho maturato.
Ma forse è bene cominciare dall’inizio, e cercare di capire quale tipo di contratto sociale il giornale ha redatto, o ha cercato di redigere,  con la comunità italiana in Germania, con le Missioni cattoliche italiane ed infine con la Chiesa locale. Intanto indichiamo i nomi dei direttori che si sono succeduti alla guida del giornale. I dati li prendiamo dal bel volume di don Vito Lupo: „Die italienischen katholischen Gemeinede in Deutschland“. Don Vincenzo Mecheroni; mons. Aldo Casadei; mons. Silvano Ridolfi, don Gianfranco Zorzi, Enzo Piergianni, don Enzo Parenti, padre Corrado Mosna, don Giovanni Ferro, padre Tobia Bassanelli e il sottoscritto.
I nomi sono tuttavia legati non solo a stili redazionali, ma anche a periodi storici nei quali emergevano necessità differenziate. La prima delle quali si poteva esprimere con le seguenti  domande: quale tipo di giornale, e a chi è rivolto?
La domanda non è di semplice risposta, perché il Corriere d’Italia è giornale che nasce in ambito ecclesiale con una tentazione continua di trasformasi in giornale pastorale. La questione è viva dall’inizio e trattata già in una lettera del febbraio 1972 a firma di Silvano Ridolfi, ancora oggi lucidissima memoria storica della emigrazione italiana in Germania. Diceva Ridolfi: „A cosa serva il giornale è detto mille volte: è un appoggio e completamento dell’opera nostra. Siccome nostro, ha una chiara mentalità (cristiana, socialmente cristiana). Siccome giornale, è destinato a tutti e non può avere la fisionomia di bollettino parrocchiale, né potrà sostenere tesi o pareri di un singolo missionario o in questioni singole che non riportino un principio e un interesse generale“.
Pur confermando ovviamente la „mentalità cristiana“, Ridolfi tracciava una chiara linea tra bollettino pastorale e giornale di interesse generale, destinato anche a coloro che non vanno in chiesa, o che non si definiscono credenti. Ridolfi certamente non risolse la questione, che si ripete nella storia del giornale e si rispecchia ancora oggi nel tira e molla del numero di pagine dovute o possibili che esso dedica alla Chiesa, e nella disaffezione dei Missionari quando non si parla abbastanza di loro.
Prevale ancor oggi, tuttavia, pur tra le ricorrenti polemiche, la linea tracciata allora da Ridolfi: il giornale ha una mentalità cristiana ma è rivolto a tutti: ergo non è un giornale pastorale, pur contenendo alcune pagine che si riferiscono al dibattito all’interno della Chiesa ed alla vita delle Missioni. (1)
Ma c’è un altro punto che mi sembra molto interessante in questa lettera di Ridolfi, il quale scrive:  “(Il giornale) non potrà sostenere tesi o pareri di un singolo Missionario o questioni singole che non riportino un principio o un interesse generale.” Parole che suonano un po’ bizzarre e misteriose, se non si pensa alla polemica politica di quegli anni,  che fu di tale portata da scuotere profondamente la vita stessa del giornale e, intorno ad esso, della vita missionaria in Germania. Ridolfi, scrivendo quelle parole, aveva infatti probabilmente in mente la questione della collocazione politica del Corriere.
Mi sono soffermato un attimo per dare un’occhiata agli atti e alla documentazione che hanno accompagnato la storia del giornale in questi decenni.  Negli anni Settanta, esso  veniva visto da molti Missionari troppo a Sinistra e quasi un impedimento alla attività pastorale.
Ora, intendiamoci: gli anni Settanta erano quelli del grande conflitto sociale, e sarebbe stato difficile comunque non schierarsi. Il giornale si schierò e forse molti di voi ricordano quegli anni e quei conflitti. Negli archivi vi sono corrispondenze interessantissime, con lanci di accuse tremende e prese di posizioni forti che si giustificavano naturalmente con il clima che ciascuno, Missionario o no, in quegli anni respirava. Ma chi era questo “singolo Missonario” -secondo le parole di Ridolfi, di cui il giornale non potrà “sostenere tesi o pareri?”. Oggi si può naturalmente soltanto giocare con le ipotesi.
In ogni caso, uno dei centri di quelle accuse e controaccuse fu il missionario di Wolfsburg, poi diventato direttore del giornale: Enzo Parenti, emiliano come il sottoscritto e come Ridolfi stesso. Parenti, se interpreto bene la corrispondenza che mi è capitato di trovare, fu il catatalizzatore di una enorme tensione politica e sociale. Nel libro citato, don Vito Lupo lo descrive così: “Era straordinariamente intelligente, aveva una penna felice ed era un buon prete”. Non la pensavano così molti Missionari, i quali, a lui e a don Cotelli suo aiutante rivolgevano i loro strali.
Scrive il 29 marzo 1973 don Silvio Porisiensi, Missionario in Danimarca, a don Enrico Cotelli.
"(…) Ora vengo al giornale (sottolineato n.d.r.) tema centrale, di cui tu, se ben osservi, parli ben poco. La mia lettera riguardava appunto questo, e te lo ripeto. È il giornale in causa. È il giornale cattolico in causa; è un giornale nostro, di sacerdoti, in causa; è il servizio pastorale e strumento del corpo dei Missionari, in causa! Mi stupisce il fatto che tu abbia rigettato semplicemente ogni mia critica, anche se pertinente, alla conduzione del giornale. (…) non è vero forse che il giornale continua imperterrito nel suo cammino, senza tener conto di ciò che pensano i Missionari, di ciò che la Chiesa si attende? La verità è questa: qui c’è un atto di superbia e una sfida, un accapparramento che non capisco, una convinzione d’infallibilità di giudizio che non tollera nessuna opposizione moderativa, anzi la schiaccia."
Sono accuse molto forti. Il giornale, di Chiesa, pagato, finanziato dalla Chiesa, viene accusato di non tener conto di ciò che la Chiesa si attende. Lo scandalo era enorme. All’epoca ci furono addirittura Missionari che chiesero in restituzione i danari che avevano prestato al giornale, e si trattava di diecine di migliaia di marchi.
Ancora più forti sono le accuse che un altro Missionario, don Giuseppe Audisio, fa direttamente ad Enzo Parenti nel novembre del 1974, riferendosi ad una articolo di un certo Isaglio. Scrive Audisio.
"Nell’articolo di Piergiorgio Isaglio sul Cdi nr. 40 trovo la seguente frase: ’sotto la minaccia di una crisi mondiale, la Sinistra è chiamata ad un grande appuntamento che non è affatto pacifico … ‚. Confermo che gli articoli di Isaglio sopra citati sono un incitamento alla violenza, una falsificazione ed una strumentalizzazionde della Resistenza, altro che ‚evangelica  correzione fraterna‘ come la chiami tu. Ho rischiato la mia pelle per liberarci dal nazismo e dalle Brigare nere, non per sentir parlare di ‚un grande appuntamento che non è affatto pacifico‘ caro ad Isaglio ed alle Brigate rosse e nere".
Cito soltanto due lettere delle tante a disposizione per non tediare e per dimostrare come il clima fosse acceso, e le accuse al giornale pesantissime. Il giornale al centro di ogni tempesta. D’altra parte, il giornale registrava tensioni che nascevano altrove ad altri livelli. Di quegli anni sono, ad esempio, la celebre “svolta socialista” delle Acli (1970), e la conseguente  deplorazione di Paolo VI che scriveva: “Con le sue discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali” le Acli sono stati condotte fuori “dall’ambito delle associazioni per le quali la gerarchia accorda il consenso”; di quegli anni è la spaccatura e la nascita del Movimento cristiano lavoratori. Insomma, il giornale rifletteva nel suo piccolo tensioni di ben altra portata.
Ma cosa risponde don Enzo Parenti alle accuse che pendono sul suo capo?
Al convegno per il 40 anniversario del giornale, spiega.
“La gestione del Corriere d’Italia aveva tracciato nel 1971 due linee direttive su cui impostare la propria azione. (…) Il nuovo Consiglio di redazione definiva nel settembre 1971 le linee di fondo del giornale cosi: dovrà essere un giornale di opinione e non solo di informazione. Tre sono i suoi principi fondamentali. La scelta democratica, intendendo la partecipazione dell’individuo alla scelta. Scelta economica socialista, intendendo la preminenza dell’uomo sul profitto. La scelta sociale, intendendo l’uomo non distaccato dal suo contesto sociale (…). Come si vede una chiara scelta cristiana, che del resto la redazione del CdI sottolineava esplicitamente nella sua interpretazione giornalistica.”
In questo modo Parenti metteva in risalto le due anime del cristianesimo sociale, che si combattono in quegli anni: quella chiamiamola “democristiana” e l’altra chiamiamola “comunista” in un termine molto generico che richiederebbe molte facettes di spiegazione. Nel giornale, le due anime furono ricomposte in seguito da Corrado Mosna, che, da quanto mi è dato di capire leggendo gli atti dei convegni, evitò una spaccatura all’interno del mondo missionario; una spaccatura che altrove fu molto più dolorosa e portò de facto al disconoscimento del giornale da parte di molti Missionari.
La questione politica non era tuttavia la sola trincea nella quale si trovava il giornale in quel periodo. Vi era una seconda traccia di discussione forte, quasi una seconda trincea, che definirei quella della “integrazione”.
Questa è altrattanto interessante. Il giornale dovette infatti interrogarsi da subito sul suo concetto di migrazione, perché da quello dipendeva il suo indirizzo di azione sociale e culturale. Già dagli anni cinquanta ci si pose il problema se allinearsi ad un concetto di migrazione come andava di moda per lo più in quel momento nel quale gli immigrati venivano chiamati ‘Gastarbeiter’. Il concetto, che potremmo definire Del Ritorno, era semplice: i lavoratori migranti sarebbero rimasti per un po’ e poi se ne sarebbero tornati in Italia. In base a questo pensiero vennero istituite una serie di servizi orientati appunto al ritorno. La scuola italiana, per esempio, così come per decenni venne organizzata in Germania e tollerata dalle istituzioni tedesche, era appunto pensata concettualmente per il ritorno dei migranti a casa loro. I migranti stessi erano più che d’accordo con questo concetto, perché il loro cuore era rimasto al paese.   
In questo senso il giornale prese quasi da subito posizioni più coraggiose, contrarie al Ritorno, piuttosto favorevoli alla integrazione delle persone nella società di accoglienza. Esso incontrò, in questa posizione, molte voci contrarie, non solo dai lettori, ma anche dai missionari stessi, che si sentivano sempre parte della Chiesa italiana e guardavano con segreto sospetto alla Chiesa locale.
Fu un altro punto di contrasto. Don Gianfranco Zorzi, già direttore, riferisce ad esempio di questo nella relazione per il 40.mo anniversario del giornale.
“Un traguardo da raggiungere –e di questo il Cdi si faceva specchio- era il consolidamento dell’emigrazione italiana da stagionale a stabile ed il suo inserimento a tutti i livelli.  Era un indirizzo contrario alla famigerata ottica del Ritorno, fortissima sul piano psicologico, ma con pochi appoggi alla realtà. Inserimento però significava prima o poi il primo passo per l’integrazione, e questo concetto era allora assai contrastato, soprattutto dalle molte istituzioni italiane venute in Germania a seguito dell’emigrazione italiana o talora dopo di essa. La parola Integrazione faceva paura  e da molti veniva diffamata come Germanizzazione. Le scuole di inserimento venivano condotte da maestri italiani ed intesa come scuole italiane. In un congresso di maestri italiani del 1967, sulla lavagna della sala congressuale stava scritto a grandi caratteri L’integrazione ci toglie il pane.”
Questa “ottica del ritorno”, che accomunava le autorità tedesche con quelle italiane predisposte all’emigrazione, e trovava l’accordo, come ripeto, della maggior parte delle famiglie, trovava però un’opposizione all’interno dell’Amministrazione italiana: quella dei comuni, che non amavano avere tra i propri concittadini degli emigranti, visti come falliti. Scrive sempre don Zorzi:
“Stare od andarsene? La realtà dava risposte precise e la volontà politica dell’Italia era al proposito documentata dalla cancellazione anagrafica delle liste comunali , ordinata, senza alcun correttivo, dal Ministero degli interni. Numerosissimi italiani qui residenti da oltre un anno si videro arrivare la lettera del sindaco in cui si comunicava la loro cancellazione, benché al paese avessero moglie e figli e ci tornassero due volte all’anno (con treni italiani della Deutsche Bahn per lavoratori italiani a Natale ed in estate). E nella furia, qualche sindaco fece pure cancellare le mogli che non si erano mai mosse dal paese.”
La questione della casa e quella della lingua erano al centro di questo concetto del Ritorno. Molti italiani sottovalutarono la necessità di imparare la lingua del posto, proprio perché abbagliati dalla prospettiva del ritorno. Ancora oggi è difficile trovare un italiano della Prima generazione che parli un tedesco fluente e corretto grammaticalmente. I danni che questo concetto del Ritorno ebbe poi nella scolarizzazione della seconda e della terza generazione di italiani, sono noti.
Per quello che riguarda la casa, essa rimaneva, nell’immaginario del migrante, simbolo di appartenenza, non semplicemente un oggetto. L’emigrato risparmiava il più delle volte in maniera massiccia, facendosi mancare il necessario, per comprare un immobile al paese, in Sicilia, in Calabria. Il più delle volte questi immobili rimanevano vuoti per 11 mesi all’anno. Erano oggetto spesso di furti e di vandalismi. Ma erano il segno che l’emigrante sarebbe tornato, e che non era uscito del tutto.
Molti di coloro che anni più tardi si trovarono a vendere l’immobile, dovettero svenderlo a prezzi anche irrisori, pur di recuperare qualche soldo. Non sono pochi i casi in cui gli immobili risultarono punto invendibili. Se quegli italiani fossero stati allora maggiormante educati alla presenza ed all’inserimento nella società di accoglienza, avrebbero acquistato casa nel posto dove vivevano 11 mesi all’anno, non in quello dove  andavano in vacanza.  
Una scelta di campo come quella che fu fatta allora dal Corriere, contrario alla ideologia del ritorno, ebbe risvolti anche spiacevoli, ma risultò estremamente moderna, soprattutto se vista con l’ottica di oggi. Questo però richiedeva un approfondimento su cosa vuol dire Integrazione.
Naturalmente è semplice pronunciare la parola ‘integrazione’, meno semplice è definirla e riempirla  di significati. Quello fu uno dei compiti del giornale da sempre. Nella elaborazione culturale del concetto di integrazione per quello che riguarda questa comunità italiana, il giornale ha avuto infatti un ruolo di primo piano e, credo, una grande influenza anche sugli altri media italiani presenti in Germania e in Europa, scritti e pensati per gli italiani all’estero.
Il modello di integrazione che, inconsapevolmente e naturalmente, gli italiani da subito praticarono nella stragrande maggioranza dei casi era quello dell’inserimento invisibile e della mimesi; non quello della partecipazione sociale, che ha invece fatto forti e politicamente pesanti  altre minoranze, sia pure arrivate più tardi in Germania. In questo, gli italiani erano perfettamente conseguenti con la loro ideologia del ritorno. Perché darsi da fare, infatti, ad imparare la lingua; perché seguire i figli nell’inserimento della scuola tedesca; perché entrare nelle rappresentanze locali, nel sindacato, nei consigli di fabbrica, nei consigli per gli stranieri, nei consigli comunali, se si rimane in Germania soltanto qualche anno e poi si ritorna al paese?
Senza voler fare analisi sociologiche che non sono di mia competenza, la domanda che il giornale si poneva e si è posto negli ultimi dieci anni riguarda proprio le conseguenze di questo modello di integrazione mimetica che la comunità italiana ha seguito. E sono tutte negative, per non dire catastrofiche.
La prima di queste conseguenze la vedrei, appunto, nella assenza di rappresentanza politica. 700 mila cittadini che vivono in Germania sono politicamente invisibili. I pochi consiglieri comunali sparsi per il territorio, sono eletti peraltro per lo più con voti tedeschi dopo la designazione dei rispettivi partiti. Là dove, invece, altre comunità straniere, come dicevo, vantano consiglieri comunale a iosa, consiglieri regionali, parlamentari e segretari di partito, per non parlare di una cospiqua rappresentanza nel sindacato e a qualsiasi livello di partecipazione.
I partiti tedeschi peraltro tendono oggi a ritirare i nomi italiani dalle liste, proprio perché la comunità non vota. Per capire la situazione ci si può immaginare una città come Firenze senza una guida, senza che nessuno prenda decisioni di qualsiasi genere. E la situazione va tendenzialmente peggiorando. A Francoforte avevamo ad esempio tre consiglieri comunali, oggi ne abbiamo uno soltanto, peraltro eletto in una lista interculturale. Nel lungo periodo, sono convinto che questa mancanza di rappresentanza avrà effetti sempre più deleteri, perché ogni decisione, grande o piccola che sia, verrà presa senza tenere conto degli interessi di questa grossa comunità.
Ma non è tutto qui. Una comunità che si nasconde pensando al ritorno è una comunità che viene percepita dagli organismi locali come integrata. Certo, se si vanno a vedere ancora oggi quei numeri statistici che fanno lo specchio dello stato delle cose, si vede che non è così. La quota di disoccupazione è il doppio di quella media tedesca, la quota della partecipazione alle scuole differenziali o di integrazione, è ancora oggi doppia di quella media tedesca, mentre la quota di iscrizione ai ginnasi è meno della metà. Sono ancora grossomodo i numeri degli anni Sessanta. Tutto questo però in Germania lo sanno soltanto coloro che si occupano di statistiche. Di fronte a tutto ciò, sia il cittadino che le autorità tedesche hanno l’impressione che la comunità italiana sia, appunto, integrata. Il cosiddetto ‘italiano all’angolo’ da cui vanno a mangiare la domenica un piatto di pasta al dente, li riceve con un sorriso e racconta loro come tutto va bene, e questo a loro basta.
Di conseguenza, la gran parte dei progetti per favorire l’integrazione delle comunità straniere, proposti dall’amministrazione tedesca, sia locale che nazionale, alle minoranze etniche che vivono in Germania, sono passati sopra la testa di questa comunità invisibile. A maggior ragione questo avverrà in futuro, man mano che si procederà con l’integrazione europea. Alborino, responsabile della Caritas tedesca per le migrazioni, ieri non a caso diceva –giustamente dal suo punto di vista- che in Europa non si può più parlare di migrazioni, ma di mobilità. Questo vuol dire che la comunità italiana ha perso il treno che le si offriva grazie allo status di comunità migrante.
Come ripeto, non è mio compito qui fare analisi sociologiche. È chiaro tuttavia che un giornale di comunità si deve porre la questione del Che fare, di fronte ad una situazione del genere. Certo una delle scelte possibili era allora ed è oggi quella di alzare le mani e di dichiararsi impotenti. Abbiamo preferito fare del giornale un luogo di dibattito forte sulle questioni che toccano gli italiani in Germania, nel tentativo di creare più consapevolezza, (almeno un briciolo in più). La grande scommessa del giornale negli anni passati è stata proporio questa: creare briciole di consapevolezza, creare presenza sociale e politica (ma non nel senso di presenza nei partiti) e creare identità.
Il dibattito all’interno del giornale è stato negli ultimi anni tumultuoso, ed uso la parola consapevolmente e senza paura di essere smentito. In certi periodi non riuscivamo a smaltire le lettere e gli interventi che arrivavano in redazione, su tutti gli argomenti possibili. I lettori sapevano che da noi non c’erano tabù, se si esclude la maleducazione. Abbiamo parlato di tasse per la Chiesa e di voto all’estero; di islam e di preservativi. Abbiamo avuto lettere di tutti i generi, comprese quelle di giovani tossicodipendenti e di giovani aspiranti suicidi, che volevano da noi una soluzione al disagio della loro vita. Non sono state poche le volte in cui rimanevamo in redazione fino alle dieci di sera, alle undici o persino alle due di notte, per riprendere alla mattina puntualmente alle otto. La tiratura e il gradimento del giornale sono aumentati in maniera esponenziale. Io assunsi nel 1998 la direzione del giornale, che allora usciva settimanalmente in 3000 copie (di cui soltanto 2000 distribuite) in 12 pagine in bianco e nero, in formato tabloid e con l’unica prospettiva di chiudere. Oggi, pur non avendo aumenti sul piano degli abbonamenti singoli, il giornale tira 35 mila copie, tutte distribuite sul territorio federale; è mensile in 32 pagine a colori ed in formato tabloid. Il bilancio è attivo grazie all’aumento delle entrate pubblicitarie, nonostante la tendenza alla diminuzione dei contributi della Conferenza episcopale tedesca. Credo di poter dire, anche in questo caso senza timore di smentite, che l’interesse che il giornale suscita è molto alto. Il giornale a questo punto della sua storia è –credo- un punto di riferimento molto importante di questa comunità.
Il giornale è stato in strada insieme ai connazionali che protestavano contro la diminuzione dei servizi consolari: a Norimberga, a Saarbrücken, a Mannheim, ad Amburgo. Ha persino –ad Amburgo- coorganizzato manifestazioni. Ha raccolto le testimonianze del dolore di emigrare. È entrato nelle fabbriche con forte presenza di italiani: a Wolfsburg come a Ludwigsburg; nelle scuole bilingue a Francoforte come a Berlino, a Colonia come a Wolfsburg.  È presente in novemila ristoranti italiani in Germania, presso gli importatori, così come presso le aziende italiane. Ha prestato gratuitamente pagine promozionali a chi si candidava per i Consigli comunali delle grandi città, come Francoforte, Monaco o Colonia.
È stata la voce degli italiani ed il vero centro del dibattito. Oltre a questo, però, il giornale si è prefisso anche un altro scopo: quello di portare un briciolo di Speranza (consapevolmente maiuscola) al di fuori del confine stretto delle Missioni, anche a coloro che in chiesa non ci vanno o che le tasse della Chiesa non le vogliono pagare. È stato portatore di una Chiesa che cerca, non soltanto di una chiesa che aspetta. Non a caso, e proprio dietro mia richiesta, in prima pagina c’è ogni volta una gentile nota pastorale fatta da una suora di talento.
Questa crescita tumultuosa dal piccolo al grande, dalla comunità alla collettività e l’attenzione che è stata rivolta all’esterno ha avuto naturalmente dei prezzi anche alti, non ultima –mi pare- una certa disaffezione dei Missionari nei confronti del giornale. Ma di questo, forse, saranno i Missionari stessi a parlare.
Nella situazione attuale, il giornale si trova di fronte ad un bivio. Da una parte la Germania è al centro di un nuovo fenomeno migratorio, fatto per la metà  di giovani intellettuali, per l’altra metà da persone con pochi mezzi culturali e intellettuali. In comune, queste due componenti hanno in genere soltanto l’ignoranza sia della lingua tedesca, sia del funzionamento della società e delle istituzioni tedesche. Dall’altra parte, questi nuovi emigrati che per molti diversi assomigliano a quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, trovano una società di accoglienza molto diversa da quella di allora. È stato detto molto bene.
In Europa non si parla più di migrazione, ma di mobilità. Sul territorio spesso non si trovano più quindi né l’assistente sociale italiano, né il consolato italiano, né il missionario italiano, mentre il mercato del lavoro è molto più selettivo, competitivo  e spietato rispetto ad allora. Chi arriva trova spesso il deserto. Anche nelle Missioni, la formazione di laici che avrebbero dovuto sostituire il missionario, è di là da venire.
Sempre per quello che riguarda le Missioni, bisogna poi aggiungere un altro problema: mentre il proprietario del giornale (le Missioni appunto) si indebolisce sul territorio, il numero dei bisogni relativi al giornale cresce. La comunità infatti presenta nuovi bisogni: gli anziani, ad esempio, ma anche i nuovi professionisti, i nuovi arrivati e via discorrendo. In questo senso dovrà essere a mio avviso rivolta la riflessione da parte di chi mi sostituirà. Grazie per l’attenzione. 
NOTE
(1) A proposito di questa polemica, ancora nel corso del dibattito successivo alla esposizione della presente relazione, durante il convegno dei Missionari a Mainz il 20 settembre 2012 chiedeva il Missionario di Lippstadt, don Pierino Natali: “Ma voi, questo giornale per chi lo scrivete?”. Risposta del relatore: “Don Pierino, lo scriviamo per chi ci vuole bene!”