Non sfoggia marmi o bugnati né particolari raffinatezze decorative, ma ha l’aspetto umile, i materiali utilizzati sono poveri (mattoni ed intonaco), l’uso di segni architettonici è minimo, tutto è ridotto all’essenziale al punto che sembra risolversi in una linea. Ma in questo suo negarsi allo sfarzo, nulla perde in grandezza ed in magnificenza. Gli edifici, la parte padronale e le barchesse, infatti, non sono raccolti attorno ad un cortile, ma si distendono un’arcata dopo l’altra in una naturale continuità, per cui lo sguardo scivola lontano fino a perdersi sulla linea dell’orizzonte.
Il corpo padronale, solennizzato dalla loggia con le quattro colonne ed il frontone, si presenta come la fronte di un tempio antico, ben visibile anche da lontano, ad evidenziare la nobiltà del proprietario. Ma la scalinata aggancia la “fabrica” al terreno e le barchesse la legano alle coltivazioni. È il modello ormai maturo (1557-1559) della villa-fattoria palladiana, dimora non di un signore-parassita, che si accontenta di vivere della rendita degli affitti, ma di un imprenditore che intende investire nella produttività dei terreni (canali di irrigazione), nelle nuove coltivazioni (mais) e nelle attività che ne derivano (mulini e setifici); quindi villa sì, ma funzionale al lavoro dei campi ed alla raccolta e conservazione dei prodotti agricoli (barchesse e torri-colombare).
L’integrazione tra casa dominicale ed edifici rustici è perfetta, nel pieno rispetto dei requisiti che il Palladio riteneva indispensabili per “ciascuna fabrica”: “l’utilità” intesa come funzionalità, “la perpetuità”, cioè la stabilità, la robustezza della struttura, e “la bellezza”, cioè la “bella forma”, ottenuta dal ricercato gioco delle proporzioni e delle simmetrie.
Ma come poteva trascorrere la vita in villa il nobile proprietario?
Secondo il Palladio, “qui il gentiluomo prenderà molto restauro e consolatione, potrà attendere agli studi ed alla contemplazione”, ma soprattutto “passerà in vedere e ornare le sue possessioni e con industria e arte dell’agricoltura accrescer le facultà”, finalmente libero dagli obblighi e dalle convenzioni cui lo vincolano il suo ceto ed il suo ufficio e ben disposto ad apprezzare la genuinità dei prodotti e la spontaneità dei rapporti, come sottolinea Giuseppe Falcone, uno scrittore del tempo: “In villa mangiasi di quello che s’ha, a che hora tu vuoi e quanto poi t’aggrada… et il pane asciutto ti pare torta… puoi desinare in piedi, non metter su tovaglia salvo la domenica… S’ha privilegio mangiar aglio e cipolle assai… trattenersi in tempo freddo nelle stalle calde, discorrendo con i contadini per i negozi della villa fatti e da fare”.
Ed un po’ tutti i trattatisti descrivono come, lasciati i saloni da ballo e di rappresentanza, i gentiluomini entrino con piacere ed interesse nei luoghi di lavoro, nelle cucine, nelle cantine, attratti da odori e sapori per loro inusuali. Anche le donne di villa risultano più belle, amabili et caste di quelle di città, nelle quali non si vede altro che “artificio et torto che si fa alla natura”.
Una nuova filosofia di vita negli affreschi di Villa Emo
Il diverso modo di investire nella proprietà terriera e di vivere in villa diventa una vera filosofia di vita, così la teorizza il nobile padovano Alvise Cornaro (“Discorsi intorno alla vita sobria”, 1557), che esalta la “Santa Agricoltura”, perché “fa acquistar la roba, non con mezzo d’arme e danni altrui”, ma con “l’arte della pace”, perché è l’unica attività che “consente di accrescere assieme al patrimonio anche la propria virtù… vera madre di civiltà e nutrice di tutte le arti”. Teorie e valori che trovano una delle massime espressioni nel ciclo di affreschi (1565) di Villa Emo di Fanzolo (Treviso), che riveste sontuosamente gli interni dell’abitazione nobiliare, opera di Battista Zelotti (1526 – 1578), già collaboratore del Veronese e in perfetta sintonia ideale con i progetti del Palladio (Villa Godi e Malcontenta).
Sopra la porta d’ingresso, all’interno della Loggia, quasi ad accogliere gli ospiti ed a qualificare l’edificio come villa-fattoria, viene raffigurata Cerere, dea della terra e della fertilità, con le spighe di grano sul capo ed attorniata da attrezzi agricoli e da festoni di fiori, di frutta e di pannocchie di mais (la nuova coltivazione), che vengono ripresi anche nella decorazione delle stanze interne.
E di seguito sono celebrati i temi forti di quella filosofia di vita, ricorrendo ad episodi tratti dalla mitologia e dalla storia romana: il controllo delle passioni, specie di quelle amorose, con la giusta punizione di Adone, uno dei tanti amori passionali di Venere (Stanza di Venere), e con le ancor più giuste pene inflitte da Giunone, custode dell’unità familiare, alle ninfe Callisto (Loggia) ed Io (Stanza di Giove ed Io), che si lasciano sedurre dal fedifrago Giove, ed invece l’esaltazione della Concordia coniugale (Vestibolo), con la bellissima immagine della sposa che regge nella mano destra i due cuori, mentre dall’alto un amorino cosparge l’ambiente di petali di rosa, un chiaro omaggio al recente matrimonio (1565) tra Leonardo Emo e Cornelia Grimani.
È infatti l’amore coniugale che porta alla saggia amministrazione della famiglia, sono la moderazione, il senso della misura, la saggezza, le virtù indispensabili per il buon governo di un popolo, virtù ben rappresentate da Scipione che restituisce al padre la principessa prigioniera, contrapposto al dispotico e prepotente Appio Claudio (Salone centrale), che vorrebbe per sé Virginia, ed al violento Ercole, che uccide l’incolpevole Lica (Stanza di Ercole).
Il testamento di Leonardo Emo
La Villa si presenta, quindi, come un libro da leggere, da sfogliare pagina per pagina, con il desiderio di scoprire lo spirito dell’epoca e di godere di un autentico, assoluto “Patrimonio dell’Umanità”, come è stato riconosciuto ufficialmente dall’Unesco nel 1996.
Ne era cosciente anche il primo proprietario, il già ricordato Leonardo Emo, che nel suo testamento del 1584 prescrive l’inalienabilità della Villa: “Et se occorresse vender qualche ben della mia facultà voglio che mia mogier lo possa far… Ma prego a non vender ben alcuno posto nella villa de Fanzuol”. E la famiglia Emo rispettò la volontà di Leonardo per quasi 450 anni, esempio unico nella storia dei proprietari di ville palladiane.