Le conseguenze dell’accordo sull’uscita del Regno Unito dall’Ue sono ancora tutte da capire
“Abbiamo raggiunto un buon accordo, ma non è il caso di stappare bottiglie di champagne” con queste parole il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha salutato, domenica 25 novembre, l’accordo tra il Regno Unito (UK) e l’Unione europea (Ue). A ruota è seguito il commento di Donald Tusk. Secondo il presidente del Consiglio europeo il “deal” raggiunto è un accordo “lose-lose” in cui non vince nessuno, ma perdono tutti. Tusk ha ragione. Che le cose si siano messe male, in generale per tutta l’Europa, si è visto fin dal giorno dopo il referendum del 23 giugno 2016. Sul piano sociale e politico le conseguenze, ancorché percepibili dagli individui e dalla collettività, non sono state ancora misurate, studiate, comprese. Diversamente da altri campi, come quello economico, bisognerà aspettare tempo per capire. Da quel 23 giugno la sterlina ha perso circa il 15% rispetto all’euro e le previsioni per l’economia europea post-Brexit” non sono rosee.
Ma se perdono tutti come mai si è arrivati fin qui?
Bella domanda. Il punto è che neanche sappiamo dove siamo arrivati. L’accordo, definito “soft Brexit”, dovrà essere sottoposto all’esame del parlamento inglese l’11 dicembre e l’approvazione è tutt’altro che scontata. In caso contrario ci sarà il cosiddetto “no deal” che vuol dire niente accordo, ovvero “hard Brexit”. Le conseguenze in termini di rapporti commerciali sarebbero nefaste non solo per il Regno Unito ma anche per i partner europei, in particolare per i maggiori produttori industriali, Germania in primis. L’uscita senza accordo equiparerebbe i rapporti del’UK con l’Ue a quelli di un qualsiasi altro Stato esterno all’Ue, con confini fisici e barriere doganali.
Ma anche in caso di approvazione dell’accordo le conseguenze per i sudditi della regina Elisabetta non saranno del tutto indolori. I costi concordati del “divorzio” ammontano a circa 45 miliardi di euro, da pagare entro il 2064, con la parte più consistente che andrà versata entro il 2025. Un altro punto dell’accordo riguarda i circa tre milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito e il milione di britannici residenti in Ue. In totale quattro milioni di persone che in teoria potranno mantenere i diritti acquisiti nella fase “pre Brexit”. Lo stesso varrà anche per chi attraverserà i rispettivi confini nel periodo di transizione, ovvero il periodo che andrà dall’uscita ufficiale di Londra dall’Ue, stabilita per fine marzo 2019, ad almeno tutto il 2020. Questo tempo “supplementare”, durante il quale le relazioni economiche tra UK e Ue rimarranno inalterate, sarà necessario per concordare i futuri rapporti bilaterali. Questi riguarderanno anche la spinosa questione del confine tra Irlanda del Nord e Irlanda, con l’eventuale applicazione di barriere doganali solo se Londra e Bruxelles non troveranno un accordo nel periodo di transizione.
Questi in estrema sintesi i contenuti dell’accordo, le cui ripercussioni politiche e sociali, tutte da capire, cominceranno ad essere visibili solo con le elezioni europee di maggio 2019. Nell’attesa di vedere cosa ci riserva il futuro è lecito fare alcune riflessioni sul presente e sul recente passato. Vediamo.
L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è l’effetto emblematico di cause ben precise. Cause che hanno un nome e un cognome, prodotte dai mali di cui soffrono le moderne democrazie. Diciamolo senza mezzi termini: Brexit è il risultato delle scelte dissennate di alcuni politici che hanno utilizzato a fini elettorali la questione della permanenza o meno nella Ue del loro paese. Il portabandiera di questi politici è stato il laburista David Cameron che, nel 2014, dopo aver promesso il referendum in cambio della rielezione a primo ministro, ha messo la questione migratoria al centro della campagna elettorale creando di fatto un corto circuito tra elezioni e referendum. A ruota segue Boris Johnson, personaggio temibile e ambiguo al pari di Donald Trump. L’ex sindaco di Londra prima ha contribuito alla caduta di Cameron schierandosi pro-Brexit e poi è diventato ministro degli esteri nel governo conservatore di Theresa May. Johnson puntava a diventare primo ministro e recentemente non ha risparmiato critiche alla linea morbida della May nella negoziazione con l’Ue fino al punto da dimettersi da ministro. Ora c’è da temere che punti a governare il Regno Unito nel prossimo futuro.
All’uso irresponsabile del voto da parte della politica si è poi aggiunto quello, altrettanto irresponsabile, da parte degli elettori. Uomini e donne che hanno votato con la pancia e non con il cervello, senza conoscere la posta in gioco, senza avere (e senza aver preteso di avere) una chiara ed obiettiva informazione sulle conseguenze che avrebbe avuto la vittoria del “Leave”. Già pochi giorni dopo il 23 giugno 2016 si sono accorti dell’errore fatto, ma i molti tentativi di ripetere il referendum non hanno avuto buon esito. Nelle maglie di quel tessuto impalpabile di cui è fatta la democrazia si sono poi inserite le manipolazioni di forze occulte che hanno puntato alla destabilizzazione. Che hanno avuto gioco facile perché hanno riempito lo spazio della disinformazione con la manipolazione delle fake news. È ciò che è successo in America a danno di Hillary Clinton. I risultati li conosciamo. Anche la Brexit è stata oggetto di attacchi occulti e di fake news.
Il 29 luglio scorso il parlamento inglese ha pubblicato un rapporto intitolato “Disinformation and fake news”. Il rapporto riporta i risultati di un’inchiesta indipendente che ha accertato illeciti nella raccolta di dati e nei finanziamenti per la campagna referendaria pro-Brexit. L’inchiesta ha anche fatto emergere la necessità di cambiare i meccanismi della legge elettorale inglese per contrastare le minacce dell’era digitale. In attesa che ciò venga fatto restano lo sconforto e la tristezza legate all’incomprensibilità del fenomeno Brexit.
Brexit è la dimostrazione tangibile che la storia, quella con la esse maiuscola, può andare all’incontrario. Che la sovranità, barattata come ricchezza identitaria, può rivelarsi impoverimento culturale. Che in politica il progresso può perdere sopraffatto dalla disinformazione e dalla manipolazione. Che l’uso del voto strumentale alle ambizioni personali da parte di politici irresponsabili può avere effetti catastrofici e irreversibili.
In questa valle di lacrime sopravvive la speranza che i cittadini europei imparino la lezione insita in Brexit. Che si rechino alle elezioni di maggio 2019 più consapevoli dell’importanza di essere parte dell’Unione. Che considerino l’Unione la propria casa comune, patrimonio irrinunciabile da difendere e sviluppare.