Iniziamo questo viaggio attraverso le parole della nostra Costituzione, dedicando un pensiero all’articolo forse più importante: l’articolo 1. Questa norma sancisce il risultato del referendum del 2 giugno 1946, dichiarando l’Italia una “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ma cosa intendevano i padri della Costituzione quando decisero di mettere un punto alla norma che oggi ogni cittadino italiano conosce a memoria o dovrebbe conoscere?
Che la sovranità appartenga al popolo, è un’affermazione ovvia se consideriamo, come giusto sia, che il nostro sistema politico sia una democrazia. Inoltre, non vi è bisogno di approfondire il concetto di repubblica: in poche parole possiamo dire che la forma repubblicana si distingue da quella monarchica per il titolare della sovranità. Se nella monarchia la sovranità apparteneva al re, nella repubblica la sovranità, come ribadito nel secondo comma dell’art. 1, appartiene al popolo, in nome del quale si legifera e si giudica senza che nessuno sia posto al di sopra della legge. Diventa chiaro, in questo modo, anche il significato etimologico del termine “repubblica”: lo Stato non è un patrimonio familiare o dinastico che si possa trasmettere ereditariamente come un bene qualsiasi, ma è invece una res publica, appunto “una cosa di tutti”.
Più interessante, invece, è l’affermazione che l’Italia sia una “Repubblica fondata sul lavoro”. Cosa vuol dire? Che in Italia ogni cittadino abbia un diritto al lavoro? Che il lavoro sia la base fondamentale della società italiana? E chi è senza lavoro, non è un cittadino? Oppure ancora, come si posiziona il lavoro nei confronti della dignità dell’uomo?
Prima di arrivare alla forma vigente, vennero esposte varie proposte: La prima, presentata dal deputato Mario Cevolotto ometteva la formula “fondata sul lavoro”. Questa, però, non piacque alla quasi totalità dei membri dell’Assemblea costituente e venne definita carente. Fu Aldo Moro – che molto più tardi guidò il Paese nei momenti forse più difficili della Storia d’Italia repubblicana – a chiedere di inserire un riferimento al lavoro. Allo stesso tempo Palmiro Togliatti, a quei tempi leader indiscusso dei comunisti, presentò una seconda proposta: “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”. Ma anche questo emendamento venne bocciato. Era, difatti, palesemente massimalista, in altre parole: risaltava la classe sociale dei lavoratori. Questo poteva andare bene ai comunisti e socialisti, ma non ai democristiani e liberali. Fu, così, il democristiano Amintore Fanfani a presentare la formula attuale che fu appoggiata dal Partito Comunista Italiano e dal Partito Socialista Italiano. Insomma, una sorte di compromesso tra le parti.
Ma perché dei 139 articoli che compongono la Costituzione repubblicana, il più controverso fu proprio il primo? Intorno all’articolo 1 si misurarono, difatti, le migliori menti politiche e alcuni valenti giuristi dell’epoca. La discussione continuò in sede plenaria fino a giungere alla sintesi che ancora oggi divide e lascia insoddisfatta una parte della cultura politica italiana. Oggi, per di più, l’articolo 1 è diventato involontariamente ironico: il lavoro, che in Italia purtroppo manca a una buona parte dei cittadini, continua stranamente ad essere la misura della dignità di una persona. Il giudice Giovanni Falcone, in un’intervista pochi anni prima di morire, affermò addirittura (senza riferimento concreto alla Costituzione), che “l’essenza della dignità umana” sta nel compiere “fino in fondo il proprio dovere, costi quel che costi”. Si riferiva al suo lavoro, appunto, di giudice. La sua può sembrare un’affermazione forte, ma riflettendo sul fatto che Falcone era giurista e conosceva benissimo la Costituzione, forse arrivò a questo pensiero, magari inconsciamente, partendo da quello che è il principio fondamentale della Costituzione. Se poi si considera che purtroppo esiste una parte importante della classe politica del Paese che al lavoro preferisce il vitalizio, la sinecura, la poltrona, la tangente e il malaffare, il pensiero profondo di Falcone suscita un amaro sorriso.
Nell’ultimo film di Sorrentino (Loro), si può notare una scena emblematica che descrive al meglio l’Italia: in un incrocio di Roma un gruppo di escort si avvia sul lungotevere per raggiungere una festa di politici. Improvvisamente un autista di un camioncino tenta invano di scansare un topo: il camioncino a quel punto sbanda e si schianta contro il ponte. Il lavoratore, si intuisce dalla scena, muore sul colpo. Le escort e i politici osservano l’incidente e restano a bocca aperta. Questa è sicuramente una metafora. Ma cosa vuole dirci il regista? Che gli italiani sono ambigui, strani. Da una parte vi sono quelli che preferiscono la furbizia all’onestà, la mazzetta al diritto, i santi in paradiso alla meritocrazia. E dall’altra parte vi sono gli italiani che sacrificano tutto pur di fare il proprio dovere, mantenere una famiglia e sbarcare il lunario. Appunto, “costi quel che costi”.